Il mio stare poetico nelle due lingue, l’italiano e il dialetto e l’incontro con la poesia di ragazzi con disabilità cognitive [Università di Verona, 23 marzo 2015]

Il mio stare poetico nelle due lingue, l’italiano e il dialetto e l’incontro con la poesia di ragazzi con disabilità cognitive

Maria Grazia Chinato

Intervento al Corso di Filosofia del linguaggio di Chiara Zamboni – Università di Verona, 23 marzo 2015

Grazie davvero dell’invito a Chiara Zamboni e buongiorno a tutte e tutti.
Per ciò che riguarda la prima parte del mio intervento, credo di poter dire che è la mia avventura, la mia esperienza in poesia rispecchia due incantamenti rispetto alle lingue; quella dell’italiano prima e quello delle poesie in lingue straniere poi, che mi hanno portato a ritrovare, in poesia, il mio dialetto.
E poi, invece, presenterò alcune poesie di ragazzi con disabilità prodotte all’interno di un laboratorio di poesia in un Centro di Formazione professionale e vedremo come loro stanno nella lingua poetica e la relazione con i loro limiti e caratteristiche individuali.
Per fare questo mi avvarrò di alcune informazioni di me e di ciò che è per me poesia, ciò che mi muove e ciò avviene in me rispetto allo scrivere versi, vuoi in italiano, vuoi in dialetto.

Sono nata in un piccolo paese della bassa veronese, in una famiglia nella quale si parlava esclusivamente dialetto, ma dialetto ricco di lingua, grazie a mio padre che amava la poesia, i libri e le filastrocche da sempre. Mio padre, infatti, oltre che tenere la biblioteca del paese era anche, all’epoca dei filò, un racconta-storie, uno di quelli che tenevano filò la sera. Era una sua grande passione.
Si scriveva dei sunti delle storie che leggeva nei libri e che amava moltissimo e nella mia infanzia mi intratteneva con giochi di parole, indovinelli, recitava interi canti di Dante che ce li faceva imparare.
A casa si parlava dialetto, così come nel paese, ma alcun poesie papà me le recitava in italiano, oppure inventava storie con una lingua un po’ in dialetto e un po’ in italiano altri dialetti o faceva un misto, inventando un funambolico grammelot.
Il fascino della lingua italiana arriva insieme alla scuola come tramite e mediatore di conoscenza, e mi piaceva moltissimo perché volevo ‘conoscere’.
Il ricordo è delle prime poesie verso i nove anni quando era successo qualcosa che mi dava poca aderenza alla realtà, qualcosa che non capivo e scrivere poesia era il modo che avevo trovato per dire quelle sensazioni strane e sconosciute.
L’essere stata scoperta e derisa dai miei, mi ha fatto abbandonare la poesia che poi ritroverò invece verso i vent’anni ventidue quando ancora non mi sono ritrovata di fronte a un parlare e dire della quotidianità che non mi era più sufficiente.

Il fare poesia: mi arrivava come una necessità a dire quel qualcosa che sfuggiva continuamente a un significato già dato: quel sentimento, quella specificità di immagine o immaginazione che il linguaggio quotidiano non risolveva appieno, oppure anche che le mie azioni (come persona o come terapeuta e consulente) non risolvevano appieno. Erano emozioni che rimanevano con me, me le portavo nel tempo come quel qualche cosa che meritava anche altre parole, altre suggestioni.
Ci sono state immagini che mi hanno fatto compagnia, per così dire per molto tempo, e io mi sentivo interrogata da queste. Come se quell’immagine, quel sentimento mi facesse intuire un di più, non era solo un fatto emotivo, s’innescava una ricerca per poter dire tutto quello che, intuito, a volte solo intravisto, mi chiedeva di poter essere detto.
Si può dire che la mia poesia nasce da domande che non si staccavano da me, esigevano attenzione e ricerca.
I miei temi sono legati alle relazioni, sono queste che più m’interessano, e diventano delle domande dalle quali mi sento spinta a cercare parole e spazi, nella pagina, che possano dire quel qualche cosa che, nascosto tra le pieghe di un rapporto, sveli qualche cosa di esso, di ogni protagonista.
Per farmi capire meglio, vi do quelli che Vittorio Sereni ha definito gli immediati dintorni di una poesia:
ciò che l’ha, in qualche modo, preceduta e guidata e lo faccio con due esempi.

Nel primo, da una storia raccontatami da un collega, l’immagine che mi era rimasta addosso era quella di un ragazzo fidanzato con una ragazza che ogni tanto sveniva ed era talmente grave il suo stato, quando succedeva, che lui la doveva rianimare, le faceva la respirazione bocca a bocca.
E le mie domande irrisolte erano: che ambito di libertà si davano questi due e in che rapporto stava con il legame che avevano questo giovane uomo e questa donna? Era mai possibile che si sentissero liberi di lasciarsi, di urlarsi addosso se ne avevano la necessità? E il loro amore che amore era così vicino alla morte? E poi, questo toccare labbra a labbra, respiro necessario e respiro di desiderio, incideva e come nella loro vita erotica?

Ne è nata la poesia Amore necessario

Ogni volta muoio al mio amore
ogni volta mi dà la vita
si china spaventato al mio cianotico stato
apre le mie labbra incardinate
e mi respira dentro
mi soffia

Alito che amo

Respiro di tutti i respiri
conscio di tutti i gesti
amore assoluto
bisogno espresso
creatore e creatura specchiata amata

Infimo amore necessario

Accolgo consolata il rituale respiro
più di così non posso dico neanche meno

mi avvicino la morte nel nascere

il caldo suo respiro scioglie in me parole respiri abortiti gesti d’aria

Muoio come creator potente che di suo potente amor assenza d’altro avverte

L’altro esempio riguarda la follia e il suo rapporto con la società. Ero laureata da poco quando sono venuta a contatto con donne e uomini rinchiusi in manicomio (ho fatto in tempo a frequentarli per lavoro) e poi ho seguito ragazze e ragazzi ai loro primi esordi psicotici -in una sperimentazione di allora, li seguivamo in ospedale, nel reparto di medicina generale, stando loro vicini tutti i giorni, dandoci il turno, per evitare loro una psichiatrizzazione precoce.
Erano incontri così ravvicinati, dalle emozioni così intense, dolori così forti che mi hanno portata a guardare attentamente alle mie idee sulla follia e sulla normalità, sulla società e le sue regole, a riflettere su un’idea che circolava allora (soprattutto tra noi giovani) che i folli avessero una qualche funzione di chiamiamolo così, ‘smascheramento’ di certi meccanismi sociali e ne eravamo affascinati.

Ne è nata la poesia         Sognavamo

Sognavamo nella pazzia qualche forma di riscatto Un pezzo di mondo Un vuoto spazio personale
I nostri sovvertitori di regole Oh, i coraggiosi offrivano un pugno dritto al fegato sociale
Erano lì quotidianità del presente sempre Il corpo parato avanti come un pugnale troppo vicino procura fastidio incappa in altri spaziocorpi
Oh, i faticosi giravano barcollando oh, troppo disinvolti a tutti
Oh, gli interroganti che tutti schivavamo con debito sorriso Oh, il mio amore alchemico
annegato nel sonno violento Avvicinati, affacciati, dammi la mano
perché no? Quali ombre scure? I tuoi sogni non appartenevo forse ai miei?
Sogni
catapultati invece tra demoni i tuoi i miei
Oh, il passato ragione di ripetuto oggi Oh, il tuo urlo meno forte coperto dal del mio

Oh bacio, Il tuo bacio sconfitto nella comune necessità di un sogno

La poesia la vivevo come necessità, che rispondeva sia a queste domande, sia al bisogno di creare. Quasi un bisogno di trascendere la mia esperienza, attraverso un linguaggio che rivelasse la realtà
In un primo periodo la poesia/fare poesia, per me, era legato ad una ribellione dal peso, dal fascino, dai giudizi veicolati nelle parole della comunicazione quotidiana.
La composizione poetica era ispida, irta, tutto era appuntito, scorticato, nelle parole e nel ritmo.
Era ricerca di parole vere, volevo rompere il ritmo consueto del parlare, del prosodare per attivare una forte differenza, un ‘allarme’ ritmico che potesse far emergere realtà, dare realtà non mistificata, non nascosta da melodie, come se produrre con le parole poetiche un ritmo “prevedibile” producesse ritmi e parole che potevano incantare, ingannare o meglio distogliere dalla ‘nuda’, molteplice, realtà.
E poi c’erano le parole con il loro peso: io ho bisogno di spazi, di respiro, penso che lo stordimento di parole allineate (stordimento di senso e significati) non introduca niente di nuovo, porti solo alla conferma di ciò che è già stato detto.
Ogni parola aveva per me, bisogno di depositarsi un po’, emergere dal bianco, essere vista, essere sentita dal silenzio almeno un po’, per esistere per se stessa, oltre e prima dell’insieme.
Come se volessi creare una qualche perturbazione: dove c’è silenzio, spazio bianco, c’è un cambio di registro, il silenzio, il bianco chiede silenzio, nel bianco, nel silenzio tra parola e parola, c’è un respiro, a volte appena trattenuto, altre lungo sospiro silenzioso, una presa d’aria che dal silenzio chiede di emergere con delle parole.
Respirare era dare un senso a ciò che stavo dicendo, era inteso come modo di ascoltare e di prestare attenzione a chi, con me ascoltando e leggendo

Nel tempo, la domanda si è spostata al rapporto tra la mia vita e la poesia. Non potevo sopportare che la poesia fosse un’esperienza in qualche modo preziosa, volevo una vita poetica. Come? Dove? Ho trovato piena risposta in quelle che io definisco relazioni poetiche.
Abitare la poesia è anche riconoscere la poesia là dove si produce, dov’è, anche nelle azioni quotidiane, anche negli ambienti dove lavoro.

Quello che capisco oggi è che questa tensione tra vita e poesia, rigore e creazione, sono le condizioni che generano ed alimentano la mia creazione poetica, perché m’ingenerano quelle domande liminali che sono alla sua origine.
Mantenere aperta la strada della poesia, significa permettermi di spingermi sull’orlo del possibile, significa emergere individuandomi, stare al margine di ferite che ingenerano stupore meraviglia, anche terrore.
Uno stare mobile tra desiderio e bellezza, che diviene matrice di poesia che, attraverso il linguaggio libera forme e le crea.

L’esperienza di Poesia dal mondo: Il mio ritorno al dialetto -che è stata la scoperta di un’altra lingua per il mio fare poetico- lo riconduco e lo vorrei narrare brevemente e criticamente attraverso, l’esperienza che ha visto nascere riappropriarsi del dialetto come espressione legata ad un’anima corale.
Circa otto anni fa è iniziata l’esperienza di poesia con persone di altre culture nel gruppo di poesia dal mondo: ci s’incontra una volta al mese leggendoci le nostre produzioni nelle nostre lingue e dando una mano per la traduzione in italiano11.
Qui l’esigenza per me di farmi capire, di far arrivare la bellezza di parole e cose in una forma che potesse essere goduta da chi l’italiano lo conosceva poco o comunque non appieno. Ma anche, mi pare, il desiderio di portare ciò che mi aveva avvicinato alla poesia, la mia infanzia, le lunghe filastrocche e le fiabe e i racconti e Dante, che mio padre mi leggeva; era un tentativo di farmi conoscere attraverso la poesia.
L’ambito mio di libertà quindi stava all’interno di due necessità che avvertivo: la necessità contestuale di essere in un gruppo e quindi volermi inserire e il voler tirar fuori una espressività più viva, più conforme in qualche modo, al vivo del gruppo così come io la avvertivo, dato dalle diverse lingue materne.
A quel punto si trattava per me di lasciarmi andare a quei luoghi e tempi e parole dell’infanzia, a quel dialetto che permetteva anche agli altri del gruppo di conoscermi di più.
Lasciarmi andare a quell’epoca della comunione con la natura che mi circondava, le stelle, i miei campi, la gente del mio luogo, nell’incarnazione dell’esperienza sorgeva una parola piena.
Era tutto ciò che mi veniva incontro grazie a questi nostri incontri e lì è nata anche la mia curiosità di vedere ciò che chiedeva di essere espresso in dialetto.
Ora il dialetto, nel mio parlare, ha perso l’accento, il canto, di che memoria perduta si tratta? Di quali affetti armonici/disarmonici? Riconoscimenti impossibili? Straniera nel mio territorio.

Avvenne quello che appariva un paradosso: il dialetto, che era una lingua sicuramente più oscura per le altre donne del gruppo, sia le italiane che quelle degli altri paesi, mi ha invece garantito il sentirmi ed essermi sentita più vicina a loro -­piuttosto che l’italiano che era la lingua più convenzionale e sicuramente più conosciuta da tutti.
Com’era possibile? Mi ritrovavo sicuramente in una relazione diversa nei confronti della lingua, di ognuna e tutte quelle lingue: arabo, serbo, tedesco, bulgaro, brasiliano, francese, siciliano, si era creato, in me, lo stesso incantamento che aveva avvertito da bimba quando non capivo il significato delle parole?

          Risonanza di lingue native: le lingue delle altre donne e uomo del gruppo, mi hanno messo in un rapporto con una me stessa più profonda. Forse i suoni musicali, il ritmo, impastato di movimenti del cuore sentito dalle donne che pronunciavano quelle parole legate al respiro, all’emissione vocaliche, il mio sentire e capire impossibile di molte di quelle lingue.
In questa situazione il mio desiderio di capire si era come annacquato, stava piuttosto nel cogliere e vivere tutte queste sfumature perché -­per molte-­ la comprensione della lingua non c’era. In me, nell’ascoltare le lingue degli altri, soprattutto delle altre, nasceva una specie di incontro che stava e si nutriva di suono e delle emozioni, quindi.
Credo sia successo, in un primo momento, qualcosa di molto simile a quello che succede quando si è molto piccoli e si è esposti all’incanto delle filastrocche o delle fiabe delle quali non c’è però comprensione, ma l’esposizione ai suoni, alla musicalità, alla bellezza di un racconto che qualcuno fa per te.
Che cosa mi garantiva che quelle che ascoltavo fossero poesie? Non avevo parametri comprensibili alla ragione o alla critica.
Sicuramente due erano le condizioni
1. intanto fiducia: eravamo un gruppo di poesia quindi quei suoni, a volte sussurrati, dondolati, sottolineati da toni e silenzi erano poesia per chi leggeva secondo questi stessi elementi
2. facevano avvenire dei movimenti dentro di me, mi trasportavano in un mondo di suoni e musicalità in genere che non era aggrappata ad un significato intellegibile, era più una comprensione globale, era più un essere trasportata.

Per me essermi esposta a poesie in lingue che non conoscevo è stato un movimento decisamente profondo ed è quello che mi ha messo in moto un mondo di assonanze, assonanze d’anima.
Era ritornare là dove stava la mia infanzia e la mia lingua d’infanzia, espressione che per prima ho imparato, parole che avevano più corpo che significato.
C’era la sola attenzione al suono, alla musicalità, al ritmi, agli arresti, al silenzio, a quelle impunture, quelle incrinature di voce che avvertivo quando ogni poeta leggeva le proprie poesie, erano ricche di sensazioni e davano emozione.
La mia prima poesia che ho avvertito fosse riuscita è stata Piumadoro, presa dalla fiaba Piumadoro e Piombofino di Guido Gozzano (Fiabe e Novelline):

Piumadoro

soffiami nonno nello spazio tra te e me
nell’aria che ci confina

soffiami che in alto volerò
e piuma nel vento poserò braccia e gambe
alleviami di parole in corpi celesti trasformate
soffiami nonno che vento porto parole d’aria

soffiami e nella bocca tua vivrò
nei polmoni tuoi confiderò
nel calore modulerò pensieri

soffiami nonno nello spazio tra te e me
nel movimento che vita è nello spazio oltre te e me

Che cosa mi ha dato, finora, lo stare nel dialetto? (oltre alla possibilità di poter scegliere in che lingua scrivere)
1. Si è magicamente annullata la necessità che vi dicevo precedentemente, di ‘rompere’ il ritmo, come se a queste parole affidassi un significato sicuro
2. il piacere è grande nella scrivere queste, sono più rilassata, mi sono anche ritrovata a non sapere più come esprimere alcune parole, perché non lo pratico più, sono andata da chi parla ancora dialetto e in alcuni casi, ho inventato, anche questo faceva parte della mia infanzia.
Il piacere del gioco. Il piacere del dialetto era/è anche quello dello stare a questo gioco che a me è arrivato dal padre.

Una poesia: La me stela el me punto fermo

Te go pensà se ànca te fosi la me stéla e nel to longo girar
te ghesi meso raise a oriente de la me parte de celo
Quéla che resta davanti a la me casa de butina
de fianco a na luna tonda e ciara che tuta la corte la risciàra
anca te fosi lì a du pasi da mi
Te ghesi meso el vestito a ponte scintillante quelo che te fa pì vizina ai me sogni
No so se te vorìa vardàr tocàr slongàr la man come fasea
Tanto splendor fa sarar i oci sentir na lagrema che brusa
te me servi là mésa ferma nel tempo
A ricordar el me girar che m’a visto partir a zercar parole vere
straniere par confondarme
e tornar adeso de fronte a ti par sarar na fola
e trovar la forza de ripartir

L’incontro con la poesia di ragazzi con disabilità cognitive: E’ l’incontro con una lingua semplice e viva, è l’incontro con l’irregolarità della grammatica che apre a significati inediti a chi ascolta.
E’ anche l’incontro con un loro momento di pausa dalle intrusioni che a volte le loro difficoltà a capire, a stare in relazioni, le difficoltà a modulare pensieri ed azioni producono:
spesso, infatti, vivono in rumore, brusio incompreso, voci che si inframmezzano alla loro vita, difficoltà a capire e parlare delle loro sensazioni e sentimenti.
Nel fare poesia è come se avessero trovato un momento di pausa dalle numerose intrusioni, momenti di silenzio anche nella loro mente. Pause dalle quali sono emerse parole e versi che parlavano di qualche cosa di così intimo che non avevano avuto la possibilità di esprimere altrove nello stesso nello stesso modo intenso con cui lo hanno fatto in poesia.
Nel fare poesia è come se avessero trovato un momento di pausa, momenti di silenzio anche nella loro mente. Pause dalle quali sono emerse parole e versi che parlano di qualche cosa di profondamente intimo che non avevano avuto la possibilità di esprimere altrove nello stesso modo intenso con cui lo hanno fatto in poesia.
E cosa succede a chi le legge? La poesia dei ragazzi fa sorgere una realtà, un tratto, uno scorcio/squarcio di esistenza. Allora, è facile che s’incontrino domande, oppure che ci si avventuri, accettando il rischio di avere (trovare) davanti a sé una piccola realtà pulsante.
Nel leggere queste poesie lo spazio e il tempo si concretizzano nel qui e ora, l’immediatezza immanente nell’essere dentro, del lasciarsi trascinare dentro, hanno aperto domande in me (ma a tutti gli operatori) che hanno scavato nel cuore e nell’anima, per stare in esse.
“Le nostre conoscenze non contemplavano queste possibilità, ciò che sapevamo delle disabilità cognitive serie non contemplava questa immersione, le nostre esperienze di relazione con questi ragazzi ci avevano collocati in un mondo di distanze imparate e sicure.
Le domande sono sorte dalla sorpresa, dalla meraviglia di leggere alcune loro poesie, messe in moto dallo stato di ‘scoperta’. Uno stato che riporta un po’ alla bellezza della meraviglia infantile che segue alla scoperta”².
Pochissimi esempi: (Francesca Darra)

Passammo oltre il mare mosso arrivammo in cielo.
Passammo oltre il sole arrivammo sul pianeta
piccolo.

Abbiamo fatto niente.

Lo guardammo.

Ecco quelle parole, facemmo niente, che interrompono con un niente un viaggio planetario, sono per me così uniche, così forti nel loro accostamento che mi fanno pensare a viaggi fantasticati e viaggi d’esperienze nei quali c’è il godimento del solo arrivo, dopo tanto andare.
Questa storia, questa immaginazione che spazia e s’interrompe o s’acquieta, assomiglia a Francesca.
Poi c’è un ‘dialogo’ tra Pasquale (Colella) e Elena (Tessari), dopo che il primo racconta ai ragazzi del laboratorio che il suo psichiatra non ha neppure voluto guardare le sue poesie:

Pasquale scrive:

Mi sento triste
quando qualcuno
è più forte di me
a non ascoltarmi

Elena ‘risponde’:

Caro psichiatra,
innanzitutto
io non sono come dice lei,
le mie
sono cose poetiche
che esplodono

Elena esercita la sua autorità di persona che ama, pensa, decide e definisce amorevolmente l’altro che è in relazione con lei.
Prendendo a cuore il suo compagno, si prende cura delle parole che lui scrive collocandole e definendone un’appartenenza poetica.

Dario Brunetto

Le voci che sentono il silenzio
non fanno la confusione

Dire la propria difficoltà a stare nella confusione e il guadagno che si ha nel silenzio
Oppure questa, sempre di Dario

Tutto ebbe un inizio nell’autunno
che cadono le foglie
dopo il caldo arriva il freddo.
Che sono rosse verdi e gialle.
Il vento che soffia l’albero
arriva la pioggia che bagna le foglie
e dopo aver caduto le foglie l’albero rimane spoglio.
L’autunno fa splendore che si prende le foglie
e fanno decorazione sui piatti sui bicchieri
sulle tazze.
Ci sono delle castagne che fanno i biscotti fanno le torte.
L’autunno va in montagna e nascono i crisantemi.

Gli oggetti si danno in un elenco, pochi sono quelli in relazioni tra loro, e questo dà un senso di estraneazione, così come qualche rovesciamento di preposizioni e di tempi e l’inversione dei soggetti offrono un effetto poetico.

Ecco, io ho finito, aspetto vostre domande e commenti, grazie.

 

  1. Le poesie del gruppo Poesia dal mondo sono raccolte nei libri: Le lingue si parlano, 2011 e Sono radice, 2014, editi da Bonaccorso ed., Verona.

  2. L’esperienza del laboratorio poetico (condotto da Grazia Capuzzo) e le poesie delle ragazze e ragazzi sono nel libro: Avevo un pregiudizio. Viaggio tra formazione e poesia, di M. Grazia Chinato, 2014, Bonaccorso ed. Verona

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