Nascita poetica

A difesa di una stalla   O della poesia

La poesia nei gesti di cura per la vita     – racconto biografico

Le due donne più importanti per me, mi scoppiarono a ridere in faccia.
Questa era l’immagine che dominava i miei ricordi: erano mia madre e mia sorella maggiore, la mia seconda madre.
Erano circa le cinque di un pomeriggio ancora caldo, quando entrarono improvvisamente in camera mia. Ero alla finestra, gli occhi persi verso l’argine, ancora piena del sentimento che avevo cercato di portare in parole, in poesia.
Ero ancora immersa in quel margine di tempo e spazio che lega la parola alla cosa, la trattiene vistosamente ancora con sé, tra corpo e foglio, anche se già appesa a suoni e inchiostro.

Non sapevo se potevo lasciarlo andare, questo solo capivo, faticavo a mollare il cuore a quelle parole.
Guardavo attraverso i campi di mais, consideravo i muri lontani della stalla di Toni e poi mi fermavo sull’argine verde appena tagliato chiedendomi se era abbastanza, se era così che poteva essere detto. L’immagine della stalla mi sembrava andasse bene. Ma erano quelle le parole giuste, per dire quello che provavo, quello che avevo visto, quella cosa terribile che era capitata?

Erano giorni che non riuscivo a togliermi quel malumore invadente, un peso che avvertivo ogni volta che respiravo profondamente. Erano giorni che non sapevo dare risposte alle lacrime che mi sorgevano improvvise, insieme ad una sensazione di inutilità, estraneità, un senso di abbandono.

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Mi sentivo confusa, avevo quasi nove anni, la mia vita procedeva tranquilla, nessun grande dolore mi aveva colpita, così lontana da una vita segnata come quella di Rémi nel libro Senza famiglia che aveva letto e riletto.
Era così strano tutto ciò, invece di godere di avere una famiglia -mi dicevo- piangevo per lui, per tutti i possibili Rémi, per l’ingiustizia, piangevo per tutto le cose che non capivo, per il destino, per le differenze che ci fanno così diversi, che ci rendono soli.
Piangevo abbandoni che non avevo avuto.
Ma di questi sentimenti segreti ne provavo vergogna.
Certo, avessi potuto parlarne con qualche amica o con mia sorella, ma no, sapevo di non potere: erano tutte lontane, tutte occupate a fare cose: lavorare, confezionarsi vestiti alla moda, uscire con le amiche o giocare. E questa distanza, mi rinnovava il senso di estraneità. Rinnovava differenze enormi, aumentava abissi di sensibilità solitaria. Così, anche la mia inquietudine ingrandiva.
Erano anche giorni che i miei campi, la corsa sull’argine, guardare l’Adige che svoltava sonoro là, sulla pericolosa curva a gomito del Bazìn -l’unico luogo che vantava una bella spiaggia di morbida sabbia odorosa- non mi davano la solita felicità, quella che provavo sentendomi padrona dei miei luoghi, sicura di conoscerli e di essere riconosciuta da quelle viole scure e profumatissime dei fossi, quelle chiare e quelle bianche dei declivi dell’argine.

Quelle viole che mi riempivano di bellezza profumata non mi bastavano più.
Questo stava capitando: un qualche cosa si era come insinuato in mezzo, mi mancava la solita aderenza.
Questo era tutto, tutto il mondo che sapevo e mi comprendeva; quando mi arrabbiavo con mamma o mia sorella, quando la maestra non mi dava il voto che pensavo di meritare o quando la mia amica mi tradiva, insomma, quando mi sentivo straboccare, sapevo come fare per riprendermi: camminavo sulla terra smossa dei campi, saltavo i fossi alla ricerca di gialli fiori di loto, di bellissime salamandre solitarie, mi fermavo ad annusare l’odore dell’erba appena tagliata.
Tutto respirava con me. Questo mi bastava, eccome.
Questo era forza -la mia- la nostra – insieme.

Adesso stava capitando qualcosa di strano. O forse era stato l’aver visto, giorni prima, quella stalla vuota, appena abbandonata dalle mucche che conoscevo una per una, andate al macello. Era stato quello l’inizio di quell’invadente sensazione? Forse esservi entrata aveva aperto un varco verso qualche cosa d’indefinibile e violento? Erano turbamenti che ancora non sapevo nominare appieno, ma che mi portavano via parte del cuore e me lo spingevano lontano. Lontano dalla felicità di quei luoghi di appartenenza sicura. Tutto dentro quelle mura viveva, prima.
Fu in mezzo a tutto ciò che sentii, quel secco rumore della porta che si apriva di scatto.
E comparvero. Era come se mi avessero colta in pieno peccato. Sobbalzando, cercai di nascondere il foglio a quadretti che ancora stava sul davanzale, vicino al mio corpo, che cercava ora, con mossa ingenua, di proteggere le mie parole scritte.
Era stata mia sorella a prenderlo, me lo stracciò quasi. Era la mia sorella grande, ma quando spadroneggiava così la odiavo, ne avevo paura, ma le avrei voluto cavare i capelli a ciocche. Come si permetteva? Mi stava strappando il poco di cuore che mi era ancora rimasto vicino. Mi sembrava stesse scappando tutto insieme al loro ridere.
Stavano entrando quasi in me. Mi congelai per non aprire varchi, fuori ero tutta d’un pezzo, un tronco informe, le braccia strette ai fianchi e le gambe piantate sulle piastrelle marroni. E lo sguardo, dove guardavano i miei occhi? Loro, quelle due irriconoscibili facce, quelle vedevo, ma mi allontanavo, mi distaccavo velocemente insieme al furioso battito d’un cuore tradito. Lo stomaco, che fronteggiava i loro corpi, veniva penetrato da un pugno deciso e rapido.
Un colpo che arrivò fino al cuore, che si chiuse in un grumo freddo di distanza e vergogna. Un punto di fuoco che bruciava rabbia di sentirmi scaraventare fuori dal mio mondo privato, si trasformò in una furia grande e impotente per non essere capita, rispettata. E l’impossibilità di proteggermi.
Quel riso, scaturito dalla mia metafora della stalla abbandonata, nel tempo che lessero a voce alta quelle parole, formò una crepa tra me e loro che si apriva sempre più. Eravamo contrapposte. E mai così lontane.

Insieme, tutte queste sensazioni erano più di ciò che sentivo sopportabile, piansi l’impossibilità di difendere quelle sensazioni. Erano racchiuse, in me, innegabilmente in quell’immagine, immagine di un posto che conoscevo bene: il calore emanato dalla paglia umida, che faceva vibrare l’aria in nuvole di vapore impalpabile, quell’oro brunito, smosso dagli zoccoli e che ancora portava i segni del pesante e imponente corpo di quelle mucche conosciute. Quella sensazione di vita ancora presente nel subito dopo la partenza, subito dopo la morte, il distacco. Il suo esistere anche senza di loro.

C’era tutto un tempo, tutto un mondo ancora che vibrava, che avvolgeva, che stordiva col suo odore di quotidiana presenza viva.
E poi c’era la tiepida presenza degli oggetti. Quelle mangiatoie, ancora mezze piene, quei secchi vuoti, non mollavano la loro utilità; indifferenti, non desistevano dal rimandare un’immagine di strumenti utili. Le scodelle e le mangiatoie ancora potevano contenere, le catene ai muri, inutili in quel momento, non per questo non erano meno forti e chiamavano a sé possenti colli di bestie ruminanti.
Tutti gli strumenti erano approntati per l’utilità e funzionalità. E poi, l’odore acre di piscio. Tutto ancora portava a quei corpi che, vivi, stavano prima lì.
Tutto e ogni cosa, in quella stalla, era segno di una vita che non c’era più, tutto si portava lo scoramento di sapere di un prima che c’era, di possenti corporature ruminanti che conoscevo per nome. Qui si nutrivano, riparavano, qui nascevano i nuovi.

Qui, avevo visto per la prima volta nascere un vitellino.
Era stato un sommovimento di viscere.
Il mio amico Gaetano mi aveva chiamata attraverso i campi che separavano le nostre due case. Ero già in allerta da qualche giorno e quando lo sentii, sapevo già.
Era stata sicuramente la corsa più bella che avessi mai fatto. Senza fiato ma indomita, come chi sa che poi di respiro sarà inondata, mi ero ritrovata nella stalla, ci eravamo messi un po’ discosti dalla Rosina, un esemplare di bel marrone rossiccio, che dovevamo lasciare tranquilla, aveva il suo compito e a noi due era stato dato solo il permesso di vedere quel magnifico, terribile e glorioso avvenimento. Mi sentivo grande e dovevo dimostrarlo rispettando distanze e silenzio. E chi poteva non emettere quei respiri, per forza sonori, chi ce la faceva a non dire, eccolo, eccolo. Ma i grandi non ci dissero nulla. Anche a loro, evidentemente sembrava un comportamento ragionevole. E poi, e poi, il vitellino, mamma mia, sì sì, tutto intero con zampe e zoccoli. Oddio, ma davvero? E come faceva a non fare male alla sua mamma? E la Rosina come sopportava quando lui si muoveva? Non ce la facevamo a non andare ad accarezzarla. Ma non potevano, era vietato avvicinarsi.
Il veterinario e Toni -il papà di Gaetano- loro la accarezzavano.
Non avevo mai visto le grosse, pesanti e callose mani di Toni accarezzare qualcuno.
Ma erano poi carezze o ero suggestionata dalla situazione, dal desiderio di farlo io?
No, non mi sbagliavo, erano lunghi e misurati passaggi della mano, forte, pesante, molto maschile, ma anche tenera, pensavo.
E in quella misura di forza e cura, c’era carezza e gesto utile. La Rosina quietava il suo respiro e il suo sudore veniva asciugato.

Che modo avevano questi due uomini di accarezzare! Non c’era distinzione tra il gesto d’affetto e quello di utilità. O l’affetto era solo il mio, sciocca bambina romantica e non contadina? Già perché i contadini hanno un modo particolare di stare con gli animali. Gli animali esistono nell’ordine dell’utilità. E i gesti sono solo quelli necessari; non c’é confusione tra uomo ed animale, ognuno risponde alla sua specie e quel gesto di cura per la vita suggellava la loro correlazione necessaria.

Mi ci sono voluti anni per identificare l’origine del mio credo poetico, del mio tentativo di mostrare come la poesia sia nei gesti necessari, connaturata nella pulizia, nella semplicità, nel rigore e nell’essenzialità. Per me, non esiste poesia nel superfluo, né nel dimostrativo, né tantomeno nel gioco linguistico.
La poesia delle mani di Toni era nel modo di un gesto necessario per far stare bene la Rosina e il nuovo nato, un modo che mi era sembrato il più intimo e insieme il più universale e sacro, così dentro la vita.
E tutte queste qualità erano poesia in azione.

 

***
Parole a seguire

La poesia è per me una qualità del necessario che la fa esistere in gesti e parole che s’impongono per essere differenti, per offrirsi come discontinuità, poiché fatti di cura, coinvolgimento personale e grazia.

Di fronte alla bellezza di gesti e nascita, quelle mani, quella stalla e la nostra presenza ad accogliere la nuova vita smettevano di essere gesti banali e luoghi di quotidiana fatica e diventavano grazia.

Quando tutta questa vita che se n’è andata, ho sentito quanto fosse ancora presente per me, per accompagnarmi a dire di un altro dolore, che era il dolore di crescere, di abbandonare una prima infanzia dorata, senza strappi.
Avevo perso l’innocenza incontrando la morte.
E incontravo la poesia.

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