Sviluppi poetica

Il mio stare poetico nelle due lingue, l’italiano e il dialetto e l’incontro con la poesia di ragazzi con disabilità cognitive.

Università di Verona, 23 marzo 2015
Intervento al Corso di Filosofia del linguaggio di Chiara Zamboni

Grazie davvero dell’invito a Chiara Zamboni e buongiorno a tutte e tutti.

Per ciò che riguarda la prima parte del mio intervento, credo di poter dire che è la mia avventura, la mia esperienza in poesia rispecchia due incantamenti rispetto alle lingue; quella dell’italiano prima e quello delle poesie in lingue straniere poi, che mi hanno portato a ritrovare, in poesia, il mio dialetto.

E poi, invece, presenterò alcune poesie di ragazzi con disabilità prodotte all’interno di un laboratorio di poesia in un Centro di Formazione professionale e vedremo come loro stanno nella lingua poetica e la relazione con i loro limiti e caratteristiche individuali. Per fare questo mi avvarrò di alcune informazioni di me e di ciò che è per me poesia, ciò che mi muove e ciò avviene in me rispetto allo scrivere versi, vuoi in italiano, vuoi in dialetto. Sono nata in un piccolo paese della bassa veronese, in una famiglia nella quale si parlava esclusivamente dialetto, ma dialetto ricco di lingua, grazie a mio padre che amava la poesia, i libri e le filastrocche da sempre.

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Mio padre, infatti, oltre che tenere la biblioteca del paese era anche, all’epoca dei filò, un racconta-storie, uno di quelli che tenevano filò la sera. Era una sua grande passione. Si scriveva dei sunti delle storie che leggeva nei libri e che amava moltissimo e nella mia infanzia mi intratteneva con giochi di parole, indovinelli, recitava interi canti di Dante e ce li faceva imparare. A casa si parlava dialetto, così come nel paese, ma alcun poesie papà me le recitava in italiano, oppure inventava storie con una lingua un po’ in dialetto e un po’ in italiano altri dialetti o faceva un misto, inventando un funambolico grammelot. Il fascino della lingua italiana arriva insieme alla scuola come tramite e mediatore di conoscenza, e mi piaceva moltissimo perché volevo ‘conoscere’. Il ricordo delle prime poesie è verso i nove anni quando era successo qualcosa che mi dava poca aderenza alla realtà, qualcosa che non capivo e scrivere poesia era il modo che avevo trovato per dire quelle sensazioni strane e sconosciute. L’essere stata scoperta e derisa dai miei, mi ha fatto abbandonare la poesia che poi ritroverò invece verso i vent’anni ventidue quando ancora non mi sono ritrovata di fronte a un parlare e dire della quotidianità che non mi era più sufficiente.

Il fare poesia: mi arrivava come una necessità a dire quel qualcosa che sfuggiva continuamente a un significato già dato: quel sentimento, quella specificità di immagine o immaginazione che il linguaggio quotidiano non risolveva appieno, oppure anche che le mie azioni (come persona o come terapeuta e consulente) non risolvevano appieno. Erano emozioni che rimanevano con me, me le portavo nel tempo come quel qualche cosa che meritava anche altre parole, altre suggestioni. Ci sono state immagini che mi hanno fatto compagnia -per così dire- per molto tempo e io mi sentivo interrogata da queste. Come se quell’immagine o quel sentimento mi facesse intuire un di più; non era solo un fatto emotivo, s’innescava una ricerca per poter dire tutto quello che, intuito, a volte solo intravisto, mi chiedeva di poter essere detto.

Si può dire che la mia poesia nasce da domande che non si staccavano da me, esigevano attenzione e ricerca. I miei temi sono legati alle relazioni, sono queste che più m’interessano, e diventano delle domande dalle quali mi sento spinta a cercare parole e spazi, nella pagina, che possano dire quel qualche cosa che, nascosto tra le pieghe di un rapporto, sveli qualche cosa di esso, di ogni protagonista. Per farmi capire meglio, vi do quelli che Vittorio Sereni ha definito gli immediati dintorni di una poesia: ciò che l’ha, in qualche modo, preceduta; lo farò con due esempi. Nel primo, da una storia raccontatami da un collega, l’immagine che mi era rimasta addosso era quella di un ragazzo fidanzato con una ragazza che ogni tanto sveniva ed era talmente grave il suo stato, quando succedeva, che lui la doveva rianimare, le faceva la respirazione bocca a bocca. E le mie domande irrisolte erano: che ambito di libertà si davano questi due e in che rapporto stava con il legame che avevano questo giovane uomo e questa donna? Era mai possibile che si sentissero liberi di lasciarsi, di urlarsi addosso se ne avevano la necessità? E il loro amore che amore era così vicino alla morte? E poi, questo toccare labbra a labbra, respiro necessario e respiro di desiderio, incideva e come nella loro vita erotica?

Ne è nata la poesia Amore necessario

L’altro esempio riguarda la follia e il suo rapporto con la società. Ero laureata da poco quando sono venuta a contatto con donne e uomini rinchiusi in manicomio (ho fatto in tempo a frequentarli per lavoro) e poi ho seguito ragazze e ragazzi ai loro primi esordi psicotici -in una sperimentazione di allora, li seguivamo in ospedale, nel reparto di medicina generale, stando loro vicini tutti i giorni, dandoci il turno, per evitare loro una psichiatrizzazione precoce. Erano incontri così ravvicinati, dalle emozioni così intense, dolori così forti che mi hanno portata a guardare attentamente alle mie idee sulla follia e sulla normalità, sulla società e le sue regole, a riflettere su un’idea che circolava allora (soprattutto tra noi giovani) che i folli avessero una qualche funzione di chiamiamolo così, ‘smascheramento’ di certi meccanismi sociali e ne eravamo tutti affascinati.

Ne è nata la poesia Sognavamo

La poesia la vivevo come necessità, che rispondeva sia a queste domande, sia al bisogno di creare. Quasi un bisogno di trascendere la mia esperienza, attraverso un linguaggio che rivelasse la realtà In un primo periodo la poesia/fare poesia, per me, era legato ad una ribellione dal peso, dal fascino, dai giudizi veicolati nelle parole della comunicazione quotidiana. La composizione poetica era ispida, irta, tutto era appuntito, scorticato, nelle parole e nel ritmo. Era ricerca di parole vere, volevo rompere il ritmo consueto del parlare, del prosodare per attivare una forte differenza, un allarme ritmico che potesse far emergere realtà, dare realtà non mistificata, non nascosta da melodie, come se produrre con le parole poetiche un ritmo “prevedibile” producesse ritmi e parole che potevano incantare, ingannare o meglio distogliere dalla ‘nuda’, molteplice, realtà. E poi c’erano le parole con il loro peso: io ho bisogno di spazi, di respiro, penso che lo stordimento di parole allineate (stordimento di senso e significati) non introduca niente di nuovo, porti solo alla conferma di ciò che è già stato detto. Ogni parola aveva per me, bisogno di depositarsi un po’, emergere dal bianco, essere vista, essere sentita dal silenzio almeno un po’, per esistere per se stessa, oltre e prima dell’insieme. Come se volessi creare una qualche perturbazione: dove c’è silenzio, spazio bianco, c’è un cambio di registro, il silenzio, il bianco chiede silenzio, nel bianco, nel silenzio tra parola e parola, c’è un respiro, a volte appena trattenuto, altre lungo sospiro silenzioso, una presa d’aria che dal silenzio chiede di emergere con delle parole. Respirare era dare un senso a ciò che stavo dicendo, era inteso come modo di ascoltare e di prestare attenzione a chi, con me ascoltando e leggendo.

Nel tempo, la domanda si è spostata al rapporto tra la mia vita e la poesia. Non potevo sopportare che la poesia fosse un’esperienza in qualche modo preziosa, volevo una vita poetica. Come? Dove? Ho trovato piena risposta in quelle che io definisco relazioni poetiche. Abitare la poesia è anche riconoscere la poesia là dove si produce, dov’è, anche nelle azioni quotidiane, anche negli ambienti dove lavoro. Quello che capisco oggi è che questa tensione tra vita e poesia, rigore e creazione, sono le condizioni che generano ed alimentano la mia creazione poetica, perché m’ingenerano quelle domande liminali che sono alla sua origine. Mantenere aperta la strada della poesia, significa permettermi di spingermi sull’orlo del possibile, significa emergere individuandomi, stare al margine di ferite che ingenerano stupore meraviglia, anche terrore. Uno stare mobile tra desiderio e bellezza, che diviene matrice di poesia che, attraverso il linguaggio libera forme e le crea.

L’esperienza di Poesia dal mondo
Il mio ritorno al dialetto -che è stata la scoperta di un’altra lingua per il mio fare poetico- lo riconduco e lo vorrei narrare brevemente e criticamente attraverso, l’esperienza che ha visto nascere riappropriarsi del dialetto come espressione legata ad un’anima corale. Circa otto anni fa è iniziata l’esperienza di poesia con persone di altre culture nel gruppo di poesia dal mondo: ci s’incontra una volta al mese leggendoci le nostre produzioni nelle nostre lingue e dando una mano per la traduzione in italiano(1). Qui l’esigenza per me di farmi capire, di far arrivare la bellezza di parole e cose in una forma che potesse essere goduta da chi l’italiano lo conosceva poco o comunque non appieno. Ma anche, mi pare, il desiderio di portare ciò che mi aveva avvicinato alla poesia, la mia infanzia, le lunghe filastrocche e le fiabe e i racconti e Dante, che mio padre mi leggeva; era un tentativo di farmi conoscere attraverso la poesia.

L’ambito mio di libertà quindi stava all’interno di due necessità che avvertivo: la necessità contestuale di essere in un gruppo e quindi volermi inserire e il voler tirar fuori una espressività più viva, più conforme in qualche modo, al vivo del gruppo così come io la avvertivo, dato dalle diverse lingue materne. A quel punto si trattava per me di lasciarmi andare a quei luoghi e tempi e parole dell’infanzia, a quel dialetto che permetteva anche agli altri del gruppo di conoscermi di più. Lasciarmi andare a quell’epoca della comunione con la natura che mi circondava, le stelle, i miei campi, la gente del mio luogo, nell’incarnazione dell’esperienza sorgeva una parola piena. Era tutto ciò che mi veniva incontro grazie a questi nostri incontri e lì è nata anche la mia curiosità di vedere ciò che chiedeva di essere espresso in dialetto. Ora il dialetto, nel mio parlare, ha perso l’accento, il canto, di che memoria perduta si tratta? Di quali affetti armonici/disarmonici? Riconoscimenti impossibili? Straniera nel mio territorio.

Avvenne quello che appariva un paradosso: il dialetto, che era una lingua sicuramente più oscura per le altre donne del gruppo, sia le italiane che quelle degli altri paesi, mi ha invece garantito il sentirmi ed essermi sentita più vicina a loro -­piuttosto che l’italiano, lingua più convenzionale e sicuramente più conosciuta da tutti. Com’era possibile? Mi ritrovavo sicuramente in una relazione diversa nei confronti della lingua, di ognuna e tutte quelle lingue: arabo, serbo, tedesco, bulgaro, brasiliano, francese, siciliano, si era creato, in me, lo stesso incantamento che aveva avvertito da bimba quando non capivo il significato delle parole?

Risonanza di lingue native: le lingue delle altre donne e uomo del gruppo, mi hanno messo in un rapporto con una me stessa più profonda. Forse i suoni musicali, il ritmo, impastato di movimenti del cuore sentito dalle donne che pronunciavano quelle parole legate al respiro, all’emissione vocaliche, il mio sentire e capire impossibile di molte di quelle lingue. In questa situazione il mio desiderio di capire si era come annacquato, stava piuttosto nel cogliere e vivere tutte queste sfumature perché -­per molte‐ la comprensione della lingua non c’era. In me, nell’ascoltare le lingue degli altri, soprattutto delle altre, nasceva una specie di incontro che stava e si nutriva di suono e di emozioni, quindi. Credo sia successo, come primo momento, qualcosa di molto simile a quello che succede quando si è molto piccoli e si è esposti all’incanto delle filastrocche o delle fiabe delle quali non c’è però comprensione, ma l’esposizione ai suoni, alla musicalità, alla bellezza di un racconto che qualcuno fa per te. Che cosa mi garantiva che quelle che ascoltavo fossero poesie? Non avevo parametri comprensibili alla ragione o alla critica.

Sicuramente due erano le condizioni:

  1. intanto fiducia: eravamo un gruppo di poesia quindi quei suoni, a volte sussurrati, dondolati, sottolineati da toni e silenzi erano poesia per chi leggeva secondo questi stessi elementi
  2. facevano avvenire dei movimenti dentro di me, mi trasportavano in un mondo di suoni e musicalità in genere che non era aggrappata ad un significato intellegibile, era più una comprensione globale, era più un essere trasportata

Per me essermi esposta a poesie in lingue che non conoscevo è stato un movimento decisamente profondo ed è quello che mi ha messo in moto un mondo di assonanze, assonanze d’anima.
Era ritornare là dove stava la mia infanzia e la mia lingua d’infanzia, espressione che per prima ho imparato, parole che avevano più corpo che significato. C’era la sola attenzione al suono, alla musicalità, al ritmi, agli arresti, al silenzio, a quelle impunture, quelle incrinature di voce che avvertivo quando ogni poeta leggeva le proprie poesie, erano ricche di sensazioni e davano emozione. La mia prima poesia che ho avvertito fosse riuscita è stata Piumadoro, presa dalla fiaba Piumadoro e Piombofino di Guido Gozzano (Fiabe e Novelline)

Piumadoro

Che cosa mi ha dato, finora, lo stare nel dialetto? (oltre alla possibilità di poter scegliere in che lingua scrivere)

  1. Si è magicamente annullata la necessità che vi dicevo precedentemente, di ‘rompere’ il ritmo, come se a queste parole affidassi un significato sicuro
  2. il piacere è grande nella scrivere queste, sono più rilassata, mi sono anche ritrovata a non sapere più come esprimere alcune parole, perché non lo pratico più, sono andata da chi parla ancora dialetto e in alcuni casi, ho inventato, anche questo faceva parte della mia infanzia.

Il piacere del gioco. Il piacere del dialetto era/è anche quello dello stare a questo gioco che a me è arrivato dal padre.
Una poesia: La me stela el me punto fermo

L’incontro con la poesia di ragazzi con disabilità cognitive                                        E’ l’incontro con una lingua semplice e viva, è l’incontro con l’irregolarità della grammatica che apre a significati inediti a chi ascolta. E’ anche l’incontro con un loro momento di pausa dalle intrusioni che a volte le loro difficoltà a capire, a stare in relazioni, le difficoltà a modulare pensieri ed azioni producono: spesso, infatti, vivono in rumore, brusio incompreso, voci che si inframmezzano alla loro vita, difficoltà a capire e parlare delle loro sensazioni e sentimenti. Nel fare poesia è come se avessero trovato un momento di pausa dalle numerose intrusioni, momenti di silenzio anche nella loro mente. Pause dalle quali sono emerse parole e versi che parlavano di qualche cosa di così intimo che non avevano avuto la possibilità di esprimere altrove nello stesso nello stesso modo intenso con cui lo hanno fatto in poesia. Nel fare poesia è come se avessero trovato un momento di pausa, momenti di silenzio anche nella loro mente. Pause dalle quali sono emerse parole e versi che parlano di qualche cosa di profondamente intimo che non avevano avuto la possibilità di esprimere altrove nello stesso modo intenso con cui lo hanno fatto in poesia. E cosa succede a chi le legge? La poesia dei ragazzi fa sorgere una realtà, un tratto, uno scorcio/squarcio di esistenza. Allora, è facile che s’incontrino domande, oppure che ci si avventuri, accettando il rischio di avere (trovare) davanti a sé una piccola realtà pulsante. Nel leggere queste poesie lo spazio e il tempo si concretizzano nel qui e ora, l’immediatezza immanente nell’essere dentro, del lasciarsi trascinare dentro, hanno aperto domande in me (ma a tutti gli operatori) che hanno scavato nel cuore e nell’anima, per stare in esse. “Le nostre conoscenze non contemplavano queste possibilità, ciò che sapevamo delle disabilità cognitive serie non contemplava questa immersione, le nostre esperienze di relazione con questi ragazzi ci avevano collocati in un mondo di distanze imparate e sicure.  Le domande sono sorte dalla sorpresa, dalla meraviglia di leggere alcune loro poesie, messe in moto dallo stato di ‘scoperta’. Uno stato che riporta un po’ alla bellezza della meraviglia infantile che segue alla scoperta”2.

Pochissimi esempi: Francesca Darra

Ecco quelle parole, facemmo niente, che interrompono con un niente un viaggio planetario, sono per me così uniche, così forti nel loro accostamento che mi fanno pensare a viaggi fantasticati e viaggi d’esperienze nei quali c’è il godimento del solo arrivo, dopo tanto andare. Questa storia, questa immaginazione che spazia e s’interrompe o s’acquieta, assomiglia a Francesca. Poi c’è un ‘dialogo’ tra Pasquale (Colella) e Elena (Tessari), dopo che il primo racconta ai ragazzi del laboratorio che il suo psichiatra non ha neppure voluto guardare le sue poesie:

Il ‘dialogo’ poetico tra Pasquale e Elena

Elena esercita la sua autorità di persona che ama, pensa, decide e definisce amorevolmente l’altro che è in relazione con lei. Prendendo a cuore il suo compagno, si prende cura delle parole che lui scrive collocandole e definendone un’appartenenza poetica.

Dario Brunetto

Dire la propria difficoltà a stare nella confusione e il guadagno che si ha nel silenzio
Oppure questa, sempre di Dario

Dario Brunetto

Gli oggetti si danno in un elenco, pochi sono quelli in relazioni tra loro, e questo dà un senso di estraneazione, così come qualche rovesciamento di preposizioni e di tempi e l’inversione dei soggetti offrono un effetto poetico.

Ecco, io ho finito, aspetto vostre domande e commenti, grazie

 

note

1. Le poesie del gruppo Poesia dal mondo sono raccolte nei libri: Le lingue si parlano, 2011 e Sono radice, 2014, editi da Bonaccorso ed., Verona.
2. L’esperienza del laboratorio poetico (condotto da Grazia Capuzzo) e le poesie delle ragazze e ragazzi sono nel libro: Avevo un pregiudizio. Viaggio tra formazione e poesia, di M. Grazia Chinato, 2014, Bonaccorso ed. Verona

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Avevo un pregiudizio Viaggio tra formazione e poesia

Bonaccorso Ed, VR 2014

La ricerca che precede questo testo e la sua scrittura sono state anche azioni per guardare e testare le convinzioni che reggono il mio fare poesia come pratica trasformativa. Ho sperimentato il modello sistemico in una ricerca assolutamente nuova, messa alla prova nella pratica poetica, producendo uno scarto, un punto di arrivo nella scrittura di una ricerca sistemica. Questo libro mi ha dato il piacere di costituirsi anche come proposta culturale: incontrare l’altro, il diverso da sé, traghettati da un linguaggio poetico.

Il libro racconta l’esperienza di un laboratorio poetico durante la formazione scolastica – ma senza voti né valutazioni – in un Centro di Formazione Professionale per dodici allievi, ragazze e ragazzi con differenti disabilità, ma tutti con problemi di tipo cognitivo piuttosto severi.

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Avevo un pregiudizio è un libro che propone alcune novità:

  • l’esperienza creativa di ‘fare poesia’ è una proposta originale all’interno del panorama del circuito formativo dei giovani in generale e si è rivelata un’occasione evolutiva straordinaria per gli allievi disabili che si sono scoperti capaci e felici di mettere in parole e versi, sentimenti, immagini e fantasie;
  • il laboratorio prima e il libro poi, hanno portato cambiamenti positivi nella scuola stessa, che emergono anche dal volume stesso;
  • l’impianto di ricerca – con la descrizione della metodologia e di ciò che ‘viaggia nell’aria’ e vive nel ‘farsi’ del laboratorio – fornisce il senso di ciò che è avvenuto durante il laboratorio – poesia, relazioni e cambiamenti – e rende il libro uno strumento pratico per insegnanti e formatori che volessero ripetere l’esperienza;
  • la struttura del volume – con la presenza di più registri linguistici e l’articolazione di una storia a presenze molteplici, che conserva lo spessore della ricerca, ma anche la bellezza del registro narrativo e poetico – lo rende un libro-laboratorio capace di innescare vicinanza e cambiamenti di prospettive;
  • la lettura delle poesie e delle interviste agli allievi avvicina alla bellezza che emerge ‘dai margini del linguaggio’, suscita un potente sentimento di risonanza emotiva in grado di mettere in discussione il concetto di ‘normalità’ rendendo il libro un concreto strumento di cambiamento culturale.

Genesi

Il libro si muove da una ricerca-azione a matrice teorico-clinica sistemica che ha monitorato l’attività del laboratorio per due anni, con gli obiettivi di:

  • verificare gli apporti alla formazione personale degli allievi coinvolti, ai loro cambiamenti psicologici (soprattutto in termini di autostima, di autonomia, fiducia in sé e nell’istituzione scolastica), cambiamenti che potevano avere a che fare con una conoscenza profonda di sé stessi, dei compagni e con la consapevolezza del loro fare poetico;
  • dare forma all’esperienza individuando il metodo di lavoro e da quale epistemologia della conduttrice il laboratorio era retta (quali le condizioni che lo favorivano, portavano soluzioni e quali no)
  • testare eventuali cambiamenti nell’intera istituzione scolastico-formativa che una esperienza così stava producendo.

Il libro nasce da un’accurata selezione di tutto il materiale prodotto in questi due anni: interviste ai ragazzi e alla conduttrice, ai formatori e agli operatori del territorio, focus-groups, osservazioni dell’autrice durante lo svolgersi del laboratorio, assunzione di materiale scritto – bozze delle produzioni poetiche dei ragazzi con le correzioni e la stesura finale – diario della formatrice che ha tenuto per un periodo, osservazioni di una precedente ricerca che aveva fatto l’autrice affinché ogni formatore del Centro individuasse le principali idee attorno al compito di insegnare, educare e formare.

Struttura

l testo si articola in tre parti:
Una prima Deviazione laboratorio, nomina e indaga tutti gli elementi dell’esperienza durante il laboratorio: cosa ha guidato il ‘caso’ che lo ha fatto nascere, il clima relazionale al suo interno, qual è stata l’epistemologia della formatrice che ha favorito la specifica metodologia adottata, nonché il processo evolutivo e come si è svolto l’intero processo metodologico – esperienziale che ha portato i ragazzi a scrivere poesia.

La seconda parte, In forma di poesia, è composta dalle poesie di ogni partecipante, il cui valore e bellezza sono stati registrati anche dai poeti che, dopo la pubblicazione, le hanno lette.

In conclusione la terza parte, Scrivo la lettera consolabile. Stare ai margini del linguaggio, indaga, analizza e interroga la poesia di questi ragazzi e il senso del ‘fare poesia’ per loro: gli sviluppi psicologici e di conoscenza di sé attraverso la parola poetica, la fiducia e la libertà creativa. Ma anche il beneficio emozionale e metodologico che questa esperienza –fatta oggetto di ricerca e di scrittura- ha portato per il Centro di Formazione stesso.

Il libro propone:

  • la storia della nascita ‘per caso’ del laboratorio e le sue regole;
  • una riflessione sul metodo di lavoro che la formatrice ha utilizzato con i ragazzi;
  • il significato del fare poesia per lo sviluppo e la crescita personale di ognuno di loro;
  • una piccola antologia delle poesie composte dai ragazzi;
    il ruolo e il valore del gruppo nel fare poesia;
  • riflessioni e domande sul rapporto tra fare poesia e disabilità per lo sviluppo dell’intelligenza e della conoscenza.

L’esperienza dell’autrice

Umanamente fare questo libro – innestare il processo che poi ha condotto a scriverlo – mi ha dato la meraviglia di fronte alle poesie dei ragazzi e alle loro considerazioni durante le interviste, e mi ha portato alla necessità di una ricerca di scrittura in sintonia col contesto e i partecipanti.

Prima di “Avevo un pregiudizio” c’era una separazione netta tra i lavori professionali che avevo scritto, prevalentemente articoli e libri, e la scrittura creativa ovvero poesie e racconti,

Questo libro è stata una sfida – professionale e umana – nel trovare e produrre una scrittura che trascendesse le modalità tipiche dei diversi ‘settori’, per immaginare e realizzare altro che fosse al servizio di un luogo generativo e dei partecipanti che creavano in un contesto evolutivo di formazione.

La ricerca effettuata su questo laboratorio e la scrittura del libro sono state anche azioni per guardare e testare le convinzioni che reggono il mio fare poesia come pratica trasformativa e la professione focalizzata soprattutto su azioni di co-costruzione di concrete possibilità di empowerment.

Rispetto alla metodologia, ho sperimentato il modello sistemico in una ricerca assolutamente nuova, messa alla prova nella pratica poetica, producendo uno scarto, un punto di arrivo nella scrittura di una ricerca sistemica.

Infine, questo libro mi ha dato il piacere di costituirsi anche come proposta culturale: incontrare l’altro, il diverso da sé, traghettati da un linguaggio poetico.

 

 

 

 

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