Senso poetica

Considerazioni sulla mia poetica

Relazione tenuta al Gruppo Poesiaincorso
Cancello 20/21 novembre 2010

Per molto tempo, per molti anni la domanda che mi sono posta era la relazione tra la poesia e la vita, cos’è la poesia nella mia vita?
Mi succedeva di fare poesia ed era come se avessi l’idea che il dire poetico fosse in un rapporto di separatezza con la mia vita. Avevo l’impressione che ciò che non riuscivo a tollerare, ciò che non riuscivo a ‘rendere’ nella vita e farlo evolvere, venisse come relegato -da me- in poesia o trovasse in essa uno spazio prezioso. E ciò era intollerabile, per me, anziché amarlo, lo odiavo, quasi.
Avevo l’impressione che ci fosse separazione tra queste due realtà. La vita nella sua quotidianità mi lasciava con dei dolori, delle domande, delle relazioni insoddisfatte.
Perchè? Convivevo con questa impressione sgradevole e, allo stesso tempo, mi chiedevo da dove essa mi nascesse.
Ma anche mi chiedevo: che idea di poesia ho? Che poesia è la mia? Che era anche come chiedermi che vita è la mia?
La poesia stava in una eccedenza di significati vivi, diversi ed inusuali a ciò che mi accadeva, a ciò che incontravo, provavo, pensavo. Avevo l’impressione che tutto ciò che d’importante non trovava spazio nel mio fare, incontrare, dire, poteva essere reso in poesia.
Non potevo fare a meno di scrivere, perché la vita, con quello che mi attraversava, mi soffocava. 

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Mi piacevano le mie poesie, ma per brevissimo tempo, poi non mi interessavano più, proprio per una specie di rabbia che mi nasceva dal fatto di considerare il lavoro poetico quasi più pieno di senso. Avendo adottato questo paragone, vita/poesia, essendo una domanda accanitamente viva, non potevo sopportare che la poesia fosse, in qualche misura, più ricca.

Penso che non volessi vivere e fare poesia, ma volessi una vita poetica. Che cosa era vita poetica? Adesso ho delle idee abbastanza chiare, allora, no.

Poesia come necessità
di avere una mia storia/farmi creatrice attraverso il tentativo di creare un mio linguaggio per necessità di esistere come singolo, nella differenza, e per darmi possibilità di evolvere.
Era un bisogno dettato o meglio
la poesia è nata come emergenza nello spazio di tensione tra il mio desiderio essere unica e quello di appartenenza unitaria con gli altri.
Una unicità che soffriva molte incoerenze

Poesia per compensazione, quindi?
Zanzotto parla, per lui, di un’eterna riabilitazione di un trauma, per me è la non appartenenza, il non essere visti, non essere stata vista, perwitte quello che semplicemente ero. Per liberarmi dall’impossibile situazione di sentirmi determinata, confinata in ruoli, ha determinato lo scaturire quella che Wittgenstein ha chiamato la libertà di volere.1 Nella vita ho riconosciuto molte persone che non sono state viste, persone che hanno offerto di questo trauma e dei suoi rivoli, in diverse maniere, manifestandosi in modi e sintomatologie più o meno serie, più o meno consce, comunque esistenze segnate da questa esperienza che ho scoperto molto comune, in verità.
Il trauma incarnato in corpi e vite diverse era la ‘materia’ viva che chiedeva, in me, a me, di ‘farsi vedere’, avvertire anche nei piccoli fatti, piccole sequenze relazionali, di dirsi con parole vive, che destassero un qualche sconvolgimento, esprimessero forza.

La verità e il poeta
Vista la spinta a scrivere poesia mi sono chiesta e mi chiedo qual è il contenuto di verità e la spinta di verità del poeta?
Non è forse cercando la mia verità che (se arriva) che riesco a trovare la verità di tutti?
Nella misura in cui, pensavo, vi è aderenza piena, riconoscibilità, proiezione c’è riconoscibilità di un processo di ricerca vero
Che significa processo nella poesia? Come si rivela? E’ forse nel ritmo che collega suono e significato?

Vera non è la poesia, vero è per me, il processo che si delinea come intervallo/scarto/spazio abitato tra lo stare/essere catturati continuamente dallo stallo della rigidità, dalla impossibilità a una parola che liberi per andare avanti sentendoci bene, sentendoci umani.
Come? Stando continuamente in questo ‘spazio di manovra’ che ci permette di non soccombere alla immobilità mortifera di definizioni e significati pietrificati.

Contro la consolazione del fare poesia. Ancora con l’idea che ci fosse separazione tra vita e poesia, ho passato qualche anno a vivere momenti di allontanamento emotivo dal lab di Ida prima, ma anche dal nostro, perché mi sembrava fosse un luogo di consolazione. Niente di più deleterio, per Ce, perché niente di ciò che succedeva quotidianamente poteva minimamente essere consolato, tutto era talmente vivo che la consolazione lo avrebbe liquidato, edulcorato ed archiviato.

La materia della mia poesia: stare ai margini
Credo che la caratteristica che mi accompagna nella vita e nel lavoro sia stare ai margini.
I temi sono delle vite quotidiane, dell’esperienza di vita relazionale vissuta direttamente o direttamente raccolta e patita delle relazioni d’amicizia, d’amore, di vita quotidiana, di terapia o consulenza.
Strutture che nascono nell’integrarsi sulla natura dei rapporto e delle relazioni

Fare poesia
In un primo periodo la poesia /fare poesia, per me, era legato ad una ribellione dal peso, dal fascino, dai giudizi veicolati nelle parole della comunicazione quotidiana. Era ricerca di parole vere, volevo rompere il ritmo consueto del parlare, del prosodare per attivare una forte differenza, un ‘allarme’ ritmico che potesse far emergere realtà, dare realtà non mistificata, non nascosta da melodie, come se produrre con le parole poetiche un ritmo “prevedibile”, un movimento sonoro anticipabile, producesse ritmi e parole che potevano incantare, ingannare o meglio distogliere dalla ‘nuda’, molteplice, possibile, realtà.

La parola e la struttura poetica
La parola, le parole, hanno una grande forza. Io l’ho scoperto, toccato con tutti i miei sensi nelle esperienze d’amore, di scuola, di lavoro. Seduttrice, la parola, (anche Deleuze, ho scoperto che afferma ciò), così, consapevolmente, mi allontano da questa seduzione, da questo ammaliamento, attraverso una struttura poetica che vuole rasentare l’essenzialità, di modo che le parole aderiscano alla cose strutturando realtà, non rappresentandola.
Questa la pretesa, la tensione, la convinzione.
E’ una spinta fortemente etica, che mi accompagna anche nella vita.
E’ il saputo rapporto tra il comunicare e il dire.

Dove la comunicazione parla della realtà e il dire la crea mentre la nomina.
Fare poesia è per me creare realtà?
In questo senso è inutile, tutto intorno a noi è realtà, ma quale realtà ho bisogno di creare?
Creare una realtà in opposizione ai simulacri di realtà che però influenzano.

Mentre, infatti, la comunicazione veicola sempre, oltre al contenuto, anche un messaggio che riguarda la relazione –si ‘occupa’ e ‘preoccupa’, potremmo dire della relazione con le persone con le quali si comunica, qui –nella poesia- si tratta (trattava) di ‘togliere’ dal linguaggio questa referenzialità (?) nella quale sta la potenza seduttiva della parola (adatto a creare consenso
In generale, penso che il moto principale di un atteggiamento etico nella scrittura sia nel cercare un’estrema vicinanza a sé della scrittura stessa, (non è uno stato conquistato una volta per tutte).
Più prossima posso stare a me (la me lontana da condizionamenti  -leggasi anche aspettative, lusinghe, finalità) con le parole e la struttura che scelgo e più posso essere ‘vera’, posso trovare parole che dicono, …ecc (molto lungo è il discorso).

Stare prossima a me significa, per es., che quando faccio poesia prima di decidere che una parola va bene, la ascolto, mi chiedo, da dove arriva? Quanto mi è vicina? Dice cose o le rappresenta?
Attivare un livello di conoscenza e di vita vicina alla poesia vivendo nell’attivare molte connessioni, ascoltando ciò che non viene detto, non si può dire.
Quasi un ascolto poetico della conoscenza e una sua produzione.

Come entra ciò nella mia poesia?
Le mie composizioni poetiche fanno altro dal cercare un’armonica composizione, si basano piuttosto sul come sfuggirla, la musicalità veicolava fascino quindi gratuità delle parole, dei sentimenti delle cose la musicalità distoglie
Un po’ come se la struttura delle mie poesie procedesse come sfondo non rassicurante dal quale la realtà di quelle sensazioni/relazioni/giochi si diano come immanenti all’esperienze mie e di molti, quindi aperte alle possibilità.

Lavoravo e lavoro a volte ancora come se la forma corrispondesse a questi pensieri ed esigenze ,
Era come affermare e provare a far cadere le barriere tra poesia come evento estetico e poesia come conoscenza.

L’esperienza individuale è irripetibile, per questo, c’è il tentativo da parte mia di “far vivere’ dentro relazioni chi ascolta o legge le mie poesie.
Ho molto patito, nel quotidiano – sia di vita che di vita lavorativa, l’incontro con scontate definizioni, scontati modi di dire che abdicavano continuamente la libertà, le possibilità diverse, a favore del giudizio, presentando ed avvalorando, con le parole, solo quello.

La composizione poetica
Tutto era ispido, irto, appuntito, scorticato, nelle parole e nel ritmo
Era l’epoca nella quale non mi fidavo delle parole.
E poi c’erano le parole con il loro peso, io ho bisogno di spazi, di respiro, penso che lo stordimento di parole allineate (stordimento di senso e significati) porti alla conferma di ciò che già è detto
Ogni parola aveva per me, bisogno di depositarsi un po’, emergere dal bianco, essere vista, essere sentita dal silenzio almeno un po’, per esistere per se stessa, oltre e prima che nell’insieme.

Come se volessi creare una qualche perturbazione

 

Del silenzio Della musica Delle parole
Qual è il senso della musicalità, del ritmo?
Fornire quella x, quell’elemento di co-esistenza che possa prolungare il dire della parola, lo stesso silenzio, dal quale la parola risuona.

dove c’è silenzio, spazio bianco, c’è un cambio di registro, il silenzio,
il bianco chiede silenzio,
nel bianco, nel silenzio tra parole e parole, c’è un respiro, a volte appena trattenuto, altre lungo sospiro silenzioso,
una presa d’aria che dal silenzio chiede di emergere con delle parole

Respirare era dare un senso a ciò che stavo “dicendo” e facendo (poesia), era inteso come un modo di ascoltare e di prestare attenzione a chi, con me ascoltando o leggendo, stava costruendo significati, scene, situazioni che cercavo di dire.
Queste parole ‘misurate’, come questi silenzi, creano del disagio, forse tolgono sicurezza nell’affidare ad esse un unicum andamento di senso, vorrebbero riattivare l’incertezza dell’attribuzione di senso, appunto.
Quasi un tentativo di far intravvedere, avvicinarsi al mistero, dell’attribuzione di significati?
Ogni bianco è vuoto -la possibilità di caduta del significato annunciato dall’inanellarsi delle parole
Ogni silenzio morte –di sé, della parola e della cosa

Morte che permette il riapparire della parola, della voce, della vita indicata.
E’ come se, nel tentativo deliberato di direzionare l’attenzione con parole precise, emergesse, invece, nonostante me, (la mia intenzione, appunto), spalancassi la porta ad altro non detto.
Altro, come un andar oltre le parole (pur così precisamente cercate, anzi è proprio nel ‘gioco’ tra esattezza e voragine di suono che nasce l’indicazione ad altro, per primo la neutralizzazione del senso comune.
Se consideriamo il foglio di scrittura, le lettere sono emergenze nere che offrono sensi spezzati, un terreno, quello del foglio, che s’interrompe e crea piccole fratture.

Un modo di sfuggire al suono-segno immobile di una parola, alla sua definizione con un piccolo baratro di silenzio, di respiro, un aggrapparsi, con esso alla vita, che delle definizioni se ne fa un baffo.
Significati imbambolati le parole, resi specchi più del dover essere che dell’essere vita.
E’ la presunzione di produrre un piccola esperienza, in quella lettura, in quell’ascolto, produrre un’esperienza, sia esso un fastidio, una piccola delusione, una piccola ribellione, o maggiore attenzione,
produrre sentimenti nei confronti delle parole
un sorgere e un tramontare di nero suono e significati

Se non fosse azzardo forte mi riferirei, con uno sguardo a ritroso, a concepire la poesia come le cose che nella vita accadono, hanno ritmo, non si danno però con armonia, che l’armonia porta via, trascina i significati in un tutto già scontato (è la fascinazione di Deleuze), è quasi, invece, come la vita che accade e non capisci mai del tutto, almeno subito, come, cosa, vuol dire per te, per te.

L’esperienza di Poesia nel mondo
Poi c’è stata l’esperienza di poesia con persone di altre culture, l’esigenza per me di farmi capire, di far arrivare la bellezza di parole e cose in una forma che potesse essere goduta da chi l’italiano lo conosceva poco o comunque non appieno. Ma anche, mi pare, la voglia di portare ciò che mi aveva avvicinato alla poesia, la mia infanzia, le lunghe filastrocche e le fiabe e i racconti e Dante che mio padre mi leggeva era un tentativo di farmi conoscere attraverso la poesia.
Il mio ritorno al dialetto -che è stata la scoperta di un’altra lingua per il mio fare poetico- lo riconduco e lo vorrei narrare brevemente e criticamente attraverso, l’esperienza che ha visto nascere riappropriarsi del dialetto come espressione legata ad un’anima corale.
Circa otto anni fa è iniziata l’esperienza di poesia con persone di altre culture nel gruppo di poesia dal mondo: ci s’incontra una volta al mese leggendoci le nostre produzioni nelle nostre lingue e dando una mano per la traduzione in italiano12.
Qui l’esigenza per me di farmi capire, di far arrivare la bellezza di parole e cose in una forma che potesse essere goduta da chi l’italiano lo conosceva poco o comunque non appieno. Ma anche, mi pare, il desiderio di portare ciò che mi aveva avvicinato alla poesia, la mia infanzia, le lunghe filastrocche e le fiabe e i racconti e Dante, che mio padre mi leggeva; era un tentativo di farmi conoscere attraverso la poesia.
L’ambito mio di libertà quindi stava all’interno di due necessità che avvertivo: la necessità contestuale di essere in un gruppo e quindi volermi inserire e il voler tirar fuori una espressività più viva, più conforme in qualche modo, al vivo del gruppo così come io la avvertivo, dato dalle diverse lingue materne.
A quel punto si trattava per me di lasciarmi andare a quei luoghi e tempi e parole dell’infanzia, a quel dialetto che permetteva anche agli altri del gruppo di conoscermi di più.
Lasciarmi andare a quell’epoca della comunione con la natura che mi circondava, le stelle, i miei campi, la gente del mio luogo, nell’incarnazione dell’esperienza sorgeva una parola piena.
Era tutto ciò che mi veniva incontro grazie a questi nostri incontri e lì è nata anche la mia curiosità di vedere ciò che chiedeva di essere espresso in dialetto.
Ora il dialetto, nel mio parlare, ha perso l’accento, il canto, di che memoria perduta si tratta? Di quali affetti armonici/disarmonici? Riconoscimenti impossibili? Straniera nel mio territorio.

Avvenne quello che appariva un paradosso: il dialetto, che era una lingua sicuramente più oscura per le altre donne del gruppo, sia le italiane che quelle degli altri paesi, mi ha invece garantito il sentirmi ed essermi sentita più vicina a loro -­‐piuttosto che l’italiano che era la lingua più convenzionale e sicuramente più conosciuta da tutti.
Com’era possibile? Mi ritrovavo sicuramente in una relazione diversa nei confronti della lingua, di ognuna e tutte quelle lingue: arabo, serbo, tedesco, bulgaro, brasiliano, francese, siciliano, si era creato, in me, lo stesso incantamento che aveva avvertito da bimba quando non capivo il significato delle parole?

Risonanza di lingue native: le lingue delle altre donne e uomo del gruppo, mi hanno messo in un rapporto con una me stessa più profonda. Forse i suoni musicali, il ritmo, impastato di movimenti del cuore sentito dalle donne che pronunciavano quelle parole legate al respiro, all’emissione vocaliche, il mio sentire e capire impossibile di molte di quelle lingue.
In questa situazione il mio desiderio di capire si era come annacquato, stava piuttosto nel cogliere e vivere tutte queste sfumature perché -­per molte‐ la comprensione della lingua non c’era. In me, nell’ascoltare le lingue degli altri, soprattutto delle altre, nasceva una specie di incontro che stava e si nutriva di suono e delle emozioni, quindi.
Credo sia successo, come primo momento, qualcosa di molto simile a quello che succede quando si è molto piccoli e si è esposti all’incanto delle filastrocche o delle fiabe delle quali non c’è però comprensione, ma l’esposizione ai suoni, alla musicalità, alla bellezza di un racconto che qualcuno fa per te.
Per me essermi esposta a poesie in lingue che non conoscevo è stato un movimento decisamente profondo ed è quello che mi ha messo in moto un mondo di assonanze, assonanze d’anima.
Era ritornare là dove stava la mia infanzia e la mia lingua d’infanzia, espressione che per prima ho imparato, parole che avevano più corpo che significato.
C’era la sola attenzione al suono, alla musicalità, al ritmi, agli arresti, al silenzio, a quelle impunture, quelle incrinature di voce che avvertivo quando ogni poeta leggeva le proprie poesie, erano ricche di sensazioni e davano emozione.

L’esperienza del dialetto

Che cosa mi ha dato, finora, lo stare nel dialetto? (oltre alla possibilità di poter scegliere in che lingua scrivere)
1. Si è magicamente annullata la necessità che vi dicevo precedentemente, di ‘rompere’ il ritmo, come se a queste parole affidassi un significato sicuro
2. il piacere è grande nella scrivere queste, sono più rilassata, mi sono anche ritrovata a non sapere più come esprimere alcune parole, perché non lo pratico più, sono andata da chi parla ancora dialetto e in alcuni casi, ho inventato, anche questo faceva parte della mia infanzia.
Il piacere del gioco. Il piacere del dialetto era/è anche quello dello stare a questo gioco che a me è arrivato dal padre.

Abitare la poesia mi sembra sia abitare le relazioni poetiche
Certamente abitare le relazioni del gruppo di poesia, leggere le proprie poesie insieme, portare materiale anche per altri, stare nel silenzio per scrivere o no, è privilegio.

Certamente, per me, abitare la poesia è abitare le relazioni poetiche, è mettere in gioco “chi si è”. Ricordo il senso vivo di conoscenza e legame profondo tra noi, che non sapevamo quasi niente della vita che ognuno faceva.

Nel cercare, dopo aver chiarito questo, qualcosa ho trovato un passo di Sanguineti:
“Si comunica al principio, con una ristrettissima cerchia di complici. (…). Ma si è comunque segnati per sempre, in una certa misura, da quei lettori primi, settari e faziosi, che formano una microsocietà di favoreggiatori e di conniventi.”

Abitare la poesia è anche riconoscere la poesia là dove si produce, dov’è, anche nelle azioni quotidiane, anche negli ambienti dove lavoro.

Quello che capisco oggi è che questa tensione tra vita e poesia, rigore e creazione, sono le condizioni che generano ed alimentano la mia creazione poetica, perché m’ingenerano quelle domande liminali che sono alla sua origine.
Mantenere aperta la strada della poesia, significa permettermi di spingermi sull’orlo del possibile, significa emergere individuandomi, stare al margine di ferite che ingerano stupore meraviglia, anche terrore.
Uno stare mobile tra desiderio e bellezza, che diviene matrice di poesia che, attraverso il linguaggio libera forme e le crea.

Sto bene nello spazio poetico

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