Storia Professionale

I primi passi come psicologa

Dopo il Liceo Scientifico, mi sono laureata in Psicologia Clinica con una tesi di laurea sul ruolo dello psicologo in un Centro di Addestramento Professionale (che si occupava di allievi disabili); ricerca condotta con un’ottica sistemico-relazionale sulla mia esperienza triennale.
Era la fine del 1980, la psichiatria era stata rivoluzionata da tutto il movimento dell’Antipsichiatria prima e da quello di Psichiatria Democratica poi, fino ad arrivare nel ’78 alla promulgazione, in Italia, della famosa legge 180 che chiudeva definitivamente i manicomi (in realtà ci sarebbero voluti anni) ed istituiva servizi di territorio per seguire le persone con disturbi mentali.
A me quest’ambito interessava molto, ma non avevo idea di come lavorare sul campo e avevo la necessità di fare esperienza, così ho iniziato un tirocinio in un Servizio di Psichiatria Territoriale (allora non era previsto, né tantomeno obbligatorio il tirocinio post-laurea per gli psicologi).

Tirocinio in un Servizio di Salute Mentale: l’impostazione sistemica, il manicomio, la sperimentazione con giovani al primo esordio psicotico 

Ho scelto di andare in Liguria, Finale Ligure per l’esattezza, perché il primario di lì si era specializzato in terapia sistemico-relazione – la stessa che seguiva l’impostazione teorico-clinica sistemica che avevo scelto e nella quale poi mi specializzerò anch’io nell’85.
Sapevo che il primario aveva dato un’impostazione specifica al servizio dando importanza al lavoro e alle opinioni di tutti gli operatori del servizio (attraverso un lavoro costante di équipe considerato come operatore unico, insieme di uguali nei differenti saperi e operatività), tenendo presente, sia l’intreccio relazionale del macro sistema dentro il quale tutti eravamo, (pazienti, familiari, noi operatori e ULS), sia il ruolo che le istituzioni potevano avere nel mantenere o creare quella che chiamavamo la psichiatrizzazione del paziente.
Il tirocinio, svolto con lo stesso orario settimanale degli altri operatori, è durato circa 15 mesi; era l’inizio degli anni Ottanta (1981-1983).
Per la prima volta ho quindi sperimentato –nella quotidianità di un servizio- cos’era lavorare in équipe, (dove venivano esposte le ipotesi di lavoro e le idee di tutti e si concordavano insieme le prassi), ma anche, ho fatto l’esperienza, scioccante, di entrare in un manicomio (quello di Cogoleto, nello specifico) e conoscere alcune persone delle molte che ancora vi erano ricoverate, ma anche quella esaltante ed umanamente ricca, di lavorare in modo da ‘tirar fuori’ alcuni pazienti per reinserirli alla vita sociale.

Ma questo Servizio di Salute Mentale ha anche attivato una sperimentazione importante ed eccezionale che riguardava giovani al loro primo esordio psicotico: essi venivano ricoverati nell’ospedale civico, nel reparto di medicina generale -anziché nei reparti psichiatrici com’era prassi dove venivano usati copiosamente farmaci – e il personale del servizio, me compresa, facevamo i turni giorno e notte, accanto a loro: si parlava, mangiava e passeggiava con loro lavorando anche con la famiglia e il personale dell’ospedale.
L’idea forte – e rivoluzionaria per l’epoca – era quella di evitare loro di iniziare quella che veniva chiamata “carriera psichiatrica” (costituita dall’assunzione massiccia di farmaci e nel far vivere un’esperienza ‘totalizzante’ nell’istituzione psichiatrica che – sapevamo – contribuiva a creare una mentalità psichiatrizzante in tutti: giovani, familiari e operatori, mentalità che finiva nel ritenerli non più guaribili).
E’ stato un primo momento davvero importante, per me.

L’esperienza dei Consultori Familiari nel veronese: costruzione di un Servizio di territorio e di un lavoro d’équipe

Successivamente, tornata in Veneto, ho lavorato nei Consultori Familiari, nella provincia di Verona.
Si trattava di un servizio di territorio: erano i primi anni di esistenza dei Consultori Familiari, bisognava istituire un servizio adattando dinamiche e strategie ai nuovi temi e alla nuova cultura di ‘servizio di territorio’ volto alla famiglia; in fondo, servizi da costruire totalmente, insieme alla creazione di cultura loro adatta. I compiti dei Consultori erano: la prevenzione di problematiche relazionali disfunzionali, generalmente rispetto alla famiglia, ad esempio i problemi relazionali e/o sessuali della coppia, l’educazione dei figli, l’aiuto durante la gestazione. L’équipe era costituita da assistenti sociali, psicologi e ginecologi. Anche le adozioni facevano parte dei compiti, psicologo ed équipe dovevano fare per il tribunale la c.d. valutazione delle coppie che volevano adottare. Per me la svolta operativa, una nuova modalità di lavoro, venne proprio da lì: nel pensare e attivare un gruppo per i genitori che volevano adottare: anziché occuparmi esclusivamente di fare i colloqui alle singole coppie per le valutazioni, ho affiancato alla valutazione nuda e cruda, un lavoro di confronto fra tutti loro e i membri dell’équipe. L’obiettivo era dare ai futuri genitori uno spazio di ampio respiro dove potevano discutere, confrontarsi e imparare reciprocamente e noi imparare a conoscerli meglio.
Come tutte le novità non è stata accettata facilmente, ma ho potuto farla. So che, andata via io (lavorai circa un anno e mezzo, dall’83 al ‘84) quest’attività si è sciolta, per poi essere recuperata e portata avanti con buoni risultati qualche anno dopo divenendo prassi in quei Consultori e non solo.

Se durante i precedenti anni di tirocinio ho trovato nel servizio l’impianto del lavoro d’équipe e ne ho usufruito, nei Consultori la sfida, per me, è stata invece costruirlo con persone che avevano esperienze diverse e prassi consolidate o imparate come modalità d’intervento separate e specialistiche.

Il lavoro sistemico nel Centro di Riabilitazione di Savona: da Consulente familiare alla costruzione di un’èquipe organica e di una nuova metodologia

A metà dell’’84 vengo chiamata a Savona, in un Centro Polivalente di Riabilitazione che si occupa dell’età evolutiva, dai neonati con problematiche genericamente definite di “ritardo psicomotorio” o altre difficoltà più serie, come paralisi cerebrali infantile, distrofie ecc., fino all’età adulta; e un Centro Semi-residenziale per ragazzi disabili, entrambi gestiti dall’A.I.A.S.; la richiesta fattami è di aiutare i familiari. Resto cinque anni.

Nei cinque anni, grazie all’adozione di un’ottica e metodologia di lavoro sistemica, è cambiato molto l’impianto del mio lavoro: il primo anno, era il 1984 – non avevo ancora finito la specializzazione di psicoterapia sistemico-relazionale che finirò l’anno successivo – mi sono limitata a consulenze a sostegno delle coppie o famiglie in difficoltà ma, dopo aver conosciuto l’ambiente e le differenti problematiche e ipotizzato con il personale del Centro interventi più promettenti e organici, ho fatto proposte che coinvolgevano i riabilitatori fino a costruire un’équipe con tutti quelli che lavoravano: neuropsichiatra infantile, logopedisti e fisioterapisti e innestando, inoltre, una modalità scientifica di ipotesi e verifica costante del lavoro.

Così, il lavoro all’interno del Centro, nei cinque anni cambia decisamente molto poichè l’équipe porta a una visione d’insieme: tutte le osservazioni fatte dagli operatori specialisti, me compresa, i dubbi e i piani riabilitativi delle varie figure, diventano un unicum e, grazie all’impostazione che avevo dato alle riunioni, si trasformano in ipotesi di lavoro comune e concordato tra le parti, da verificare nel tempo e le dinamiche che si costituiscono divengono veramente interessanti nella collaborazione. Anche l’aiuto ai familiari si fa diverso, prima il mio lavoro si focalizzava sul sostenerli nelle loro difficoltà a reggere il peso di figli con problematiche più o meno severe e sull’impatto che ciò aveva comportato nella coppia o nella famiglia o su problemi di relazione con i riabilitatori di riferimento o il centro stesso, successivamente è diventato anche il coinvolgerli direttamente sul piano riabilitativo e di lavoro diretto coi figli.

Questa nuova impostazione restituiva, dove necessario, quella competenza genitoriale che ‘i piani riabilitativi svolti, per anni, esclusivamente da specialisti, le difficoltà relazionali con i figli e/o coi riabilitatori o l’affido delegante agli esperti avevano, nel tempo, esautorato.
Lavorare tutti insieme in équipe ci ha anche portato ad uscire dal centro per incontrare gli insegnanti dei ragazzi seguiti, sia per suggerimenti, che per risolvere alcuni problemi che si verificavano a scuola.

Il Perfezionamento in Epistemologia; i primi contributi teorici in Convegni e libri; nascita e Responsabilità del Centro di Consulenza e Terapia Familiare

Nell’87, intanto, porto a termine il Perfezionamento in Metodologia della Ricerca Filosofica e in Filosofia delle Scienze, all’Università di Padova, una specializzazione che scelsi con l’esigenza di avere più strumenti per approfondire le basi teoriche e i presupposti metodologici del modello sistemico. Sono stati due anni unici e davvero interessanti anche nell’offrirmi la possibilità di approfondimenti in gruppi di studiosi e professionisti provenienti da mondi e discipline le più diverse.

Concluderò con una tesi che presentava il mio lavoro di ricerca sulle domande circolari che costituiscono gli strumenti elitari della psicoterapia sistemico-relazionale.

In questi anni ho iniziato a relazionare nei convegni sul lavoro che stavo svolgendo e a impegnarmi nella scrittura per presentare la bontà dell’approccio di cura con un’ottica sistemica e conseguente lavoro d’équipe. Una pratica che restituiva interezza alla bambina e bambino seguiti e che, tolta la separazione degli interventi specialistici, immetteva più saldamente tutti gli attori della cura in una dimensione di verifica costante del proprio lavoro e delle proprie idee/ipotesi su di esso.
La proposta di lavoro conteneva un ribaltamento epistemologico: non più (o non solo) un intervento terapeutico o di consulenza volto separatamente solo ai genitori, ma una proposta retta dall’idea d’insieme: un passaggio da una pratica clinica che sottolineava l’incapacità genitoriale e spingeva i terapisti a viversi in posizione di potere, ad una che coinvolgeva, nelle diverse competenze, tutte le persone che ruotavano nella vita del bambino.
E’ stato rivoluzionario per l’epoca.
Dopo qualche anno seguirà un libro nato dalle riflessioni sull’esperienza che avevo fatto nel Centro di Riabilitazione che si proponeva come manuale innovatore, un confronto tra il modello sistemico di lavoro che proponevo e alcune delle teorie e prassi riabilitative che c’erano in quel periodo, fu “Lineamenti di riabilazione in età evolutiva”, scritto insieme a Serenella Besio – all’epoca logopedista al centro – edito dalle Edizioni Scientifiche Italiane nel 1994.

Di certo, per portare avanti questi cambiamenti, sono stata aiutata anche dall’atteggiamento dei membri del team che hanno accettato questo nuovo modo di lavorare. Credo che questo sia stato facilitato sia dall’apertura e curiosità delle logopediste presenti, sia dal fatto che i fisioterapisti andavano in consulenza da Adriano Milani Comparetti, un neuropsichiatra infantile molto noto che – unico nel panorama mondiale – dopo aver contribuito moltissimo a migliorare la riabilitazione, aveva elaborato un’idea e costituito una prassi di riabilitazione concepita come “consulenza” (che prevedeva anche il dare compiti ai genitori) e non terapia a vita, non la riabilitazione continua, come avveniva sempre a quell’epoca. Questo m’incuriosiva molto poichè l’approccio riabilitativo di Milani Comparetti, inteso come consulenza, aveva assonanza con alcune concezioni interne alla prospettiva teorico-clinica sistemica, in particolare la grande novità di terapia breve; così, per saperne di più e conoscere appieno il suo apporto scientifico, insieme a Serenella Besio ho iniziato una ricerca di alcuni anni, sul lavoro fatto da lui e da lì è nata la sua biografia incentrata sul ruolo che aveva avuto nel creare le scuole speciali prima e poi nel cercare di sabotarle, di rovesciarle per fare rivoluzione, passando per una serie di pratiche educative e di cura innovative. Si tratta di: “L’avventura educativa di A.M.C. Storia di un protagonista dell’integrazione dei disabili”, premiato come saggio e edito, nel 1996, dalla casa editrice e/o.

Così come la scrittura, nello stesso periodo ho iniziato a tenere seminari nelle Università e a partecipare a convegni italiani e internazionali dove esponevo le mie esperienze cliniche e questi aspetti del mio lavoro che mi appassionavano, scoprendo – nel tempo – che è una diramazione professionale che amo, ovvero il dire, il discutere, il proporre pubblicamente condivisioni ed esperienze concrete.

Nel maggio 1987 faccio nascere, a Savona, con alcuni colleghi psicoterapeuti della famiglia (che poi diventeranno cinque), il Centro di Consulenza e Terapia Familiare, struttura privata, di cui ero la Responsabile; resterò fino al ‘91. Da questo momento, l’attività di psicoterapia continuerà fino al 2011.

La rubrica settimanale Lettere dalla scuola in un quotidiano di Verona

Alla fine del 1989, comincio intanto a tornare a Verona e, oltre al lavoro clinico privato, per quasi due anni gestisco una rubrica settimanale in quello che era l’allora appena nato giornale quotidiano La Cronaca di Verona e provincia, si chiamava “Lettere dalla scuola”; mi piaceva perché era una sfida rispondere a richieste di persone che non conoscevo e che mi presentavano contesti e questioni nello spazio di poche righe; sfida clinica, di comunicazione e di scrittura. Ho imparato a fornire risposte utili senza stabilire certezze pericolose e fuorvianti; non mi era pensabile, infatti, dare suggerimenti di comportamenti chiusi in ricette “magiche”, mi aiutai fornendo domande che mettevano in relazioni i comportamenti e le idee di più persone che potevano fare parte del contesto descritto, proponevo suggestioni, spostavo quelle certezze poco funzionali alle relazioni, in ipotesi da verificare.

Ricerca Sistemico-processuale sulla Qualità della Formazione e del Centro Studi Prisma di Belluno come Sistema Educativo

Nel marzo del ’98 intanto (durerà fino all’aprile ‘99), il Centro Studi Prisma di Belluno (una O.N.G. per lo studio sulla disabilità nell’ambito di progetti nazionali ed europei) mi chiese di fare una valutazione sul loro fare formazione nel Corso solo residenziale Disabilità e vita quotidiana: educazione all’autonomia, indirizzato a adulti con disabilità fisica e loro accompagnatori.
La ricerca effettuata è stata un’analisi qualitativa dei processi formativi, psicologici e metodologici che caratterizzavano l’identità di sistema educativo che il Centro aveva ideato e conduceva e il cui successo era riconosciuto ampiamente da anni.
Nell’impianto di ricerca ho messo insieme operazioni che avevano come modelli ispiratori, sia la teoria-prassi sistemica, sia la valutazione dei progetti e attività nelle organizzazioni e ne è nato un impianto semi-processuale: coinvolgimento di tutti gli attori della formazione e una modalità di rilevazione che contemplava la costruzione progressiva degli strumenti di ricerca – alcuni dei quali si sono affinati e costruiti nel corso dell’evoluzione del rapporto tra me ricercatrice e il gruppo di formazione. E’ stato un lavoro di grande soddisfazione reciproca.

Consulenza di Processo Generativo in RSA psichiatriche: Ricerca con tutto il personale, team building, impostazione metodo di lavoro e cartella riabilitativa.

Sempre nel 1998, mi arriva la proposta di lavorare in due Residenze Sanitarie Assistite di tipo psichiatrico (R.S.A.) a Lonigo, in provincia di Vicenza. I compiti che mi avevano richiesto erano complessi e consistevano, principalmente nell’indicare azioni e/o formulare dei progetti per un servizio di assistenza e riabilitazione di elevata qualità, promuovere le risorse umane (a fronte anche di un elevato turn-over, soprattutto degli infermieri), costruire l’équipe riabilitativa, avviare un progetto di elaborazione di una cartella clinico-riabilitativa, nonché un progetto riabilitativo per ogni ospite.

Il mondo della consulenza a équipe e organizzazioni si profilava per me sempre più interessante e avvertivo il piacere delle potenzialità creative che la prospettiva sistemica mi offriva in questo ambito. In questi contesti vedevo la possibilità di attuare un tipo di consulenza all’organizzazione -definibile come consulenza di processo- dove poter agire tutte le mie diverse competenze (clinica, formazione e ricerca) per valutare e poi proporre un programma di lavoro concordato per rispondere alle richieste fattemi.
Così, effettuo una valutazione sistemica di tutti gli aspetti significativi: la struttura organizzativa, la realtà degli ospiti e del personale, le dinamiche relazionali, le modalità operative e delle comunicazioni esistenti, ma anche del contesto fisico e largamente esistenziale (come il clima relazionale) e mi faccio anche una prima ipotesi intorno alle idee degli operatori che circolano nella e attorno alla due strutture e alla realtà delle persone ospitate (per avere un’idea della cultura organizzativa esistente) esaminati alla luce delle finalità e delle caratteristiche funzionali e strutturali richieste ad una R.S.A. di qualità.

Oltre ad essere un luogo che tendeva a riproporre una quotidianità non dissimile a quella manicomiale nella sua pochezza di stimoli, sicuramente le questioni più rilevanti erano riassumibili nelle distanze che avvertivo: la distanza tra gli operatori e gli ospiti (legate all’ignoranza e alla paura), quella tra alcuni operatori e altri e, non ultimi, tra le finalità e obiettivi genericamente assegnati alle strutture R.S.A. e i compiti e modalità che vedevo agiti.

Per avviare delle trasformazioni posi l’attenzione sul fatto che tutti avevano solo una vaga idea della storia di ogni ospite, di fatto la ignoravano, così come sapevamo poco di come ognuno di essi passava l’intera giornata delle ventiquattro ore.

Decisi che le possibilità migliori di trasformazioni delle due R.S.A. potesse avvenire cominciando a sciogliere la distanza tra gli operatori e gli ospiti e focalizzando l’attenzione di ognuno sulla necessità di conoscerli bene per poter fare un programma riabilitativo.
Avevo chiaro che la trasformazione delle relazioni e delle diverse convinzioni e prospettive culturali potevano avere successo solo se miscelavo il nuovo (che poteva far paura) con la facilità del compito, e un po’ di avventura, (a cominciare da cercare negli sgabuzzini e magazzini le cartelle del manicomio); così, in una quotidianità che tendeva a cronicizzarsi, ogni persona che lavorava aveva un compito. Ho sorpassato così il pericolo di mettere al centro questioni difficili da tollerare come quelle delle relazioni (e piccoli poteri) tra operatori, per trasformare l’intero sistema.
La mia posizione di consulente mi ha permesso di “giocare” a costruire in modo più creativo questa posizione di ricerca, che è diventato il modo-fulcro (o, se si vuole la leva di cambiamento) con il quale gli operatori potevano occuparsi delle persone ospitate nelle strutture (colmando piano piano la distanza con loro) recuperando, ad esempio la storia dei pazienti psichiatrici che, per problemi fisici, d’età, psichici o familiari non erano più in grado di inserirsi nella società o tornare in famiglia, persone che ormai non venivano più definite così, bensì –schizofrenicamente- sia ‘residui psichiatrici’, sia ‘ospiti’.

Abbiamo cercato di ricostruire le loro storie perché le cartelle dei pazienti manicomiali erano state perse, abbiamo quindi rintracciato ogni documento possibile e ci siamo resi conto di ciò che c’era e non c’era, quali idee veicolava questo fatto, ma anche abbiamo riflettuto su quale contesto avevano vissuto e dentro, soprattutto, quale contesto storico loro e noi stavamo in quel momento. I nostri strumenti sono anche stati tutti i documenti ufficiali che riguardavano le R.S.A., le osservazioni di tutti -riabilitatori, infermieri, medici, personale ausiliario e delle pulizie- nonché un incontro plenario, ogni venti giorni, che ruotava attorno agli sguardi e alle considerazioni di tutti noi, scoprendo le persone nel loro passato e nella loro quotidianità presente e di cosa ognuno aveva bisogno.

La paura e la distanza fredda ha cominciato a far spazio all’empatia e questo movimento ha poi portato a capire meglio le esigenze di ogni uomo ospite, orientando le cure e i progetti a suo favore.

Con le R.S.A. purtroppo termino il mio rapporto di lavoro alla fine del 1999, quando si poteva fare ancora molto ma, per questioni di appalti, non abbiamo potuto proseguire l’esperienza; era diventata una consulenza di processo attraverso step di soluzioni diverse, trovate in itinere: valutazione, ipotesi, ricerca, creazione di due équipe (riabilitativa e plenaria), costruzione di metodo di lavoro e cartella riabilitativa.

Insegnamento in Università, formazione, supervisioni e attività di Consulente di Processo Generativo

Dal 2000 continueranno le mie diverse attività: supervisione individuali e di gruppo, psicoterapia (quest’ultima fino al 2011), formazione, insegnamento in molte Università italiane, ricerche, nonché consulenze a équipe le più diverse, su problemi specifici (Distretti Socio-sanitari, Consigli di classe su classi problematiche, gruppi di lavoro, Servizi socio-educativi). Con alcune équipe e organizzazioni proseguo la mia esperienza di Consulente di Processo e Generativa, che mi ha permesso di agire, in modo creativo e coinvolgente, delle trasformazioni nelle organizzazioni e gruppi.

     Alcuni esempi di Consulenza di Processo Generativo

1. Nel 2002 vengo chiamata dall’Istituto Pedagogico di Casa Nazareth (VR) per fare Consulenza e Supervisione agli operatori di due Centri Educativi Occupazionali Diurni (che si occupavano di ragazzi con disabilità) e ai formatori dei due Centri di Formazione Professionale (corsi triennali finalizzati a che i ragazzi con disabilità o con disagi vari, acquisiscano una professionalità e s’inseriscano nel mondo del lavoro, quando possibile).
Nei due Centri di Formazione incontro una realtà davvero interessante poiché i formatori -aventi una forte identità come operatori- si concepiscono ed agiscono come équipe; con incontri settimanali, discussioni su situazioni accadute e problemi.

La richiesta che mi viene fatta riguarda la necessità di lavorare con le équipe per aiutarle ulteriormente nel loro lavoro e occuparmi anche delle difficoltà relazionali e di comunicazione.
La prima fase del lavoro della mia consulenza, si rivela particolarmente preziosa: ascolto, cerco di capire la situazione e valuto cosa vorrebbe dal mio intervento ogni membro dell’équipe, faccio alcune supervisioni sul problema, per poi dare una mia valutazione sistemica complessiva del Centro e proporre un intervento di consulenza che verrà poi concordato con loro nelle modalità e tempi. Ecco, in questa fase vengo a conoscenza, sia di un modulo formativo che si chiama “Crescita Personale” al quale i formatori danno una grande importanza per il processo formativo complessivo, sia di nuove problematiche sull’inserimento lavorativo dei ragazzi che stimolano i formatori a porsi molte domande che chiedono di ripensare il processo formativo e l’organizzazione stessa del Centro di Formazione Professionale.
Poiché valutavo che erano vivi, in loro, sia il desiderio di riflettere sulle proprie azioni quotidiane e sui processi educativi innescati, sia la necessità di ridare significato al proprio agire formativo, delineandone profilo, identità educativa, caratteristiche qualitative e temperature emotive, propongo una ricerca-azione su quel modulo formativo. Perchè  esso,  la ‘Crescita Personale’ appunto, costituiva quasi un loro ‘proclama di intenti e metodi’. La ricerca aveva la finalità di riappropriarsi delle loro basi epistemologiche -per la maggior parte non consapevoli- di modo che, riconoscendole, si rafforzasse il senso del loro agire. Un’azione squisitamente di empowerment personale e organizzativo.
Propongo, così, di affiancare ad un classico rapporto di supervisione sui problemi affrontati in équipe, una ricerca-intervento da condurre insieme al nucleo delle formatrici che conducevano la Crescita (quindi anche una formatrice dell’altro centro) e programmando incontri di confronto, distributi nel tempo, con le intere équipe dei due centri.

Ho poi portato a scrivere (non l’avevano mai fatto) ogni formatrice del gruppo sulla propria esperienza di conduttrice di ‘Crescita’, sulla storia e sviluppo di questo modulo; ne nascerà un libro che uscirà nel 2005: La Crescita Personale al Centro di Formazione Professionale. Identità educativa, storie e occasione di apprendimenti, ma poi, anche organizziamo un convegno con l’ASL di riferimento e l’anno successivo le formatrici relazioneranno ad un Congresso Nazionale della Erickson, portando l’esperienza del modulo formativo.
Generativa, quindi, la consulenza, anche in questo senso, perché immette nuove esperienze, pensiero e pratiche nel contesto in cui avviene a favore di ogni persona che vi appartiene.

Negli anni, il processo di consulenza è ovviamente molto cambiato nel tipo d’interventi e proposte effettuate, poiché la sua caratteristica è proprio quella di rispondere a ciò che un contesto chiede o ha bisogno in quel momento.

Mi piace soffermarmi su alcune differenze per rendere conto della variabilità della proposta all’interno del processo consulenziale che svolgo: ho concluso il lavoro in alcuni centri, mentre in altri ciò che era iniziato con una supervisione centrata sulle dinamiche di gruppo, una volta risolte, è poi proseguita con una classica supervisione sui problemi specifici che i ragazzi presentavano, con una corale valutazione trimestrale sull’andamento della formazione e il senso generale che il centro stava offrendo agli allievi.

2. Un anno, in un Centro di Formazione Professionale, l’arrivo di nuovi formatori e di allievi con problematiche nuove hanno generato conflitti nell’équipe che compromettevano l’andamento formativo; nello svolgersi di qualche incontro, valutai che, mentre i loro modi di confronto sui ragazzi e ciò che i formatori pensavano opportuno fare erano prevalentemente conflittuali, alcune idee di fondo che avevano – ciò che voleva dire formare ragazzi disabili o in seria difficoltà- mi apparivano largamente comuni, pur nelle differenze in cui erano coniugate. Dopo aver esplicitato questa mia ipotesi e sentiti i loro feedback, propongo di allargare l’orizzonte ad una maggior conoscenza reciproca attraverso una ricerca-intervento sulle matrici personali del loro fare educazione e formazione per capire su cosa poggiava l’idea di formazione con ragazzi disabili per ognuno dei formatori, per poi costruire un’epistemologia comune all’intera équipe sul lavoro svolto (attraverso ricerche personali, interviste individuali, questionari personali, focus groups e confronti insieme).
E’ stato lavorare intervenendo su ciò che unisce nelle differenze, piuttosto che agire ed indagare su ciò che ‘non andava nell’équipe’ inoltre, ed è stata un’operazione decisamente utile, ha generato un circuito di nuova conoscenza personale e reciproca che ha fornito la possibilità, per ognuno, di sviluppo e consapevolezza e, per l’équipe intera, un ritrovarsi in una chiarezza d’insieme efficace che ha fatto sciogliere i conflitti.

Un lavoro per tutti generativo e affascinante dal quale sono emerse possibilità negli atteggiamenti individuali.
Dopo questa ricerca si sono sciolte le problematiche relazionali da cui eravamo partiti e si è deciso concordemente di fare degli incontri di auto-formazione dei formatori su alcuni temi interessanti usciti e che mi ha visto come ‘regista’.

3. Nello stesso centro, qualche anno dopo, avviene qualcosa di nuovo, di estremamente bello, comincia a circolare “qualcosa di strano nell’aria”, la formatrice d’italiano aveva iniziato un laboratorio di poesia nelle sue ore, i ragazzi erano felici di entrare in classe, le poesie erano bellissime, ma avevano fatto sorgere mille domande, alcune per tutte: erano veramente, tutte loro? Come arrivava la formatrice a farli scrivere e come li portava a questa forma? Praticare poesia, che aiuto dava ai ragazzi, alla loro crescita e sviluppo di conoscenze?
Era interessante e utile, capire come si svolgeva il processo di formazione, quali elementi e metodo vi erano immessi, valutare le differenti strategie e azioni per decidere insieme se avesse senso -ed eventualmente quale- proseguire il laboratorio (che non prevedeva valutazione scolastica alcuna) all’interno del processo formativo professionale.
La cornice epistemologica della consulenza su questo lavoro era precisa e aveva finalità e obiettivi chiari per l’équipe e l’organizzazione nel suo insieme: innescare un processo di enucleazione delle conoscenze implicite e tenere vivo il legame tra la conoscenza e sapienze individuali e quelle dell’équipe di lavoro e dell’organizzazione. Per le prime c’era bisogno che quelle intuizioni e stimoli creativi, che avevano creato il laboratorio, si organizzassero in una forma per essere rese comunicabili e si attuasse la possibilità di pensiero intorno a quell’esperienza. Così, inizio una ricerca-azione per poter rispondere a queste domande e monitorare l’esperienza, un lavoro che ha incluso interviste e incontri con gli allievi, la formatrice, i formatori, alcuni operatori del territorio e qualche familiare. Dell’esperienza, ne disegno l’identità, il metodo, il contesto, l’epistemologia, ma anche hanno spazio centrale le poesie degli allievi e le loro vive parole quando parlano di poesia, del loro fare poesia e dei loro cambiamenti, nel volume Avevo un pregiudizio, viaggio tra formazione e poesia, uscito nel dicembre del 2014.

La Consulenza di Processo e Generativa, per come la pratico, è un intervento che, muovendo da un approccio clinico con modello sistemico-relazionale, si avvale di più strumenti per avviare una trasformazione dell’organizzazione, porta a un’evoluzione positiva dell’identità con modalità che permettono di sciogliere rigidità disfunzionali per accedere ad un allargamento d’orizzonte ma anche, per me, accorgersi di qualcosa di prezioso che c’è nel contesto e che ha bisogno di emergere con più forza, accompagnato dalla riflessione, perché è qualcosa che può portare ad altro apprendimento.

Mi piace riportare ancora altre due esperienze di ricerca alle quali, tra le altre, sono particolarmente legata.

4. Nel maggio del 2010, il Centro di Formazione Professionale Tusini di Bardolino (VR), mi chiede di pensare ad una ricerca che aiuti a scardinare i numerosi pregiudizi esistenti, sia sui ragazzi che afferiscono al centro (considerati problematici, ‘sfigati’, demotivati, incapaci di concentrazione, falliti scolastici, ecc.), sia sulla sua stessa qualità formativa, ritenuta un percorso di studi inferiore. Questo è un centro che conoscevo già perché vi avevo svolto due corsi di formazione ai formatori tutor e avevo condotto un laboratorio di attivazione delle risorse e di riflessione sull’identità con una classe di allievi. Mi piaceva l’aria che si respirava, conoscevo il lavoro di organizzazione educativo-formativa che vi era presente (che metteva insieme l’impianto salesiano con le indicazioni della pratica sistemica).
Dopo un primo momento di valutazione della domanda quindi, decido di far emergere il senso di questa realtà educativa direttamente dalle storie di alcuni ex-allievi : come erano adesso, come potevano apparire quando hanno iniziato la scuola, com’erano nelle scuole precedenti, sogni, paure, cosa pensavano del centro quando sono arrivati e cosa pensano oggi del loro attraversamento di scuola professionale, per arrivare ad un ritratto vivo.
Per fare questo adotto modalità d’intervista maieutico-sistemica; intervisto loro, i loro formatori, ex insegnanti e genitori. Il metodo delle ‘storie’, mi permise di mostrare il lavoro educativo e formativo attivato nelle sue sfaccettature singolari e nei significati che gli allievi stessi, i protagonisti, ne avevano tratto, il senso che ognuno aveva attribuito al proprio percorso formativo.
Sono stati incontri che mi hanno arricchito molto. Ma è anche successo che sia rimasta molto incuriosita e colpita favorevolmente dalla qualità e dalle valenze educativo-formative di questo luogo e dei processi attivati in questi allievi che i loro racconti mettevano in luce o facevano intravvedere, così, il lavoro s’estende a una ricerca sul modello epistemologico della sua organizzazione e nell’aiutare la direttrice nell’elaborata scrittura del complesso modello organizzativo dato al centro stesso; uscirà tutto ciò, nel luglio dell’anno successivo, nel volume Pensare e attraversare la formazione. L’esperienza del modello Tusini.

5. L’altra ricerca che mi piace particolarmente ricordare inizia nel settembre 2010 (dura esattamente un anno): vengo invitata a far parte di un progetto, guidato dall’Università di Aosta nell’ambito del progetto “Art-Labo, laboratori artistici per ragazzi disabili, studenti e operatori”, su aspetti metodologici dell’intervento e della formazione attraverso l’arte nel caso della disabilità.
E’ stato affascinante essere presente e coinvolta nei diversi laboratori artistici e nella preparazione dell’evento finale che si svolgevano in situazioni residenziali, ma soprattutto molto stimolante e produttivo lavorare in un’équipe di ricercatori. Il mio lavoro è stato effettuare un’analisi epistemologica con gli artisti e gli assistenti di ciascun laboratorio al fine di far emergere: le idee pedagogiche ed artistiche sottostanti il complesso intreccio di interventi, nella loro ideazione e realizzazione e, infine, indicare alcuni elementi di analisi critica sulla qualità del “prodotto” (evento) artistico per predisporre criteri più ampi di ricerca ulteriore, a più ampio raggio e di maggiore durata. La ricerca è presentata nel libro: Art Labo – Fare arte con la disabilità, analisi di un percorso educativo e artistico, di Serenella Besio, Le Château Edizioni, Aosta, 2015 e il mio lavoro è racchiuso nel capitolo Idee e azioni artistiche: analisi epistemologica.