Vedere l’invisibile a un passo dal pregiudizio Rosanna Cima 2015

Vedere l’invisibile        a un passo dal pregiudizio                Rosanna Cima

Intervento alla presentazione del libro: Avevo un pregiudizio. Viaggio tra formazione e poesia di Maria Grazia Chinato, Verona, 14 maggio 2015

 

Ti ringrazio tantissimo M.Grazia di questo libro. E’ stato attraverso Livia che è avvenuto questo incontro con M.Grazia Chinato che, in un certo senso, ho conosciuto con questo testo, non la conoscevo prima. Ringrazio profondamente le Grazie, l’autrice e la conduttrice del laboratorio, e questo testo, arrivato in un momento in cui, con Livia ed altre, ci stiamo ponendo grandi interrogativi su come sia possibile leggere, vedere e scrivere ‘ciò che viaggia nell’aria’, quando operatori e insegnanti creano e agiscono percorsi di cura. Questo testo mi ha aiutato a leggere, mi ha dato una spinta creativa per poter stare nella lettura di tutto ciò che ‘viaggia nell’aria’.

Quindi ringrazio molto l’autrice.

Io, all’ombra della scrittura di M. Grazia, mi sono messa nella posizione di lettura di questo testo, in quelle sue posizioni che sono all’interno della domanda di trasformazione che sta alla base di questo lavoro e che non è così immediata.

Vi do alcuni passi che giustificano questa lettura: mi soffermo un attimo sul titolo Avevo un pregiudizio, il pregiudizio è passato, ma tra pregiudizio e avevo un pregiudizio, c’è un grandissimo lavoro, declinato nella sua bellezza poetica.

Vorrei soffermarmi sulla questione del pregiudizio, che è qualcosa di pesante e complesso che contamina i nostri modi di pensare, di osservare e di comportarci, poiché s’inserisce nella vita quotidiana, tanto dentro che non ci accorgiamo di esserne immersi. Il pregiudizio è individuale e sociale, è dentro la cultura invisibile che respiriamo, e tutti ne abbiamo esperienza. Il pregiudizio (come sottolinea Lascioli) è un potere agito-subìto: chi lo agisce lo subisce nei termini di una riduzione della possibilità di comprensione della realtà, chi lo subisce lo agisce portandone il peso, assumendone i contorni e le deformità. La sua potenza consiste proprio in questo limitare attivo e passivo, si configura come “potere” dell’uomo sull’uomo che, nel momento in cui viene analizzato, mostra di avere radici profonde e molto diramate.

Il pregiudizio ci dà una forma di vedere; poter dire “Avevo un pregiudizio”, è quindi un passaggio molto forte, che devia la normalità del nostro sguardo e lo devia proprio là dove si vedono le devianze, si vede ciò che non sta dentro ad una norma, là dove si danno le diversità conclamate, diagnosticate. Direi che quando la diversità non è compresa, o è scartata, si confeziona un pregiudizio. Qui, in questo percorso formativo -che godiamo nella scrittura- si tracciano nuovi confini e territori che ogni giorno vengono rigiocati in questo laboratorio: non sono dei confini fissi, ma proprio per questi motivi, per queste scelte di scrittura che M. Grazia fa, noi possiamo vedere, quasi entrare, lasciandoci deviare verso altri mondi.

Il pregiudizio è anche una forma di ‘non vedere’ di cui siamo tutti più o meno affetti.  Così può succedere di non riuscire a vedere ciò che altrimenti sarebbe evidente, chiaro, che si trova lì davanti ai nostri occhi; oppure succede di non riuscire a vedere ciò che potrebbe e dovrebbe esserci in ciò che, invece, vediamo come completo, anche se in realtà è carente del necessario. Quando la diversità non è compresa o scartata, si confeziona il pregiudizio e si stabiliscono i confini tra chi è normale e chi non lo è. Dire al passato “avevo un pregiudizio” significa attuare un’operazione di portata culturale, politica, formativa e trasformativa.

Questo è il tragitto che l’autrice propone con questo libro Avevo un pregiudizio che mi ha colpito molto per questa operazione culturale e di bellezza poetica e anche per la sua grande portata politica, perché questo vuol dire davvero cambiare registro: questi ragazzi, da pazienti, scolari e scolare, divengono poeti; è un passaggio molto forte che ci interroga molto sul nostro stare all’interno di servizi e può aiutarci a uscire dalle schede, non allineandoci.

Per fare questo passaggio, M. Grazia ci presenta i ragazzi come personaggi; di ciascuno, nella descrizione, c’è una parte di corpo, una parte del loro stare nella relazione con il mondo e una parte creativa. In tutti questi personaggi M. Grazia ci da questi pezzi di mondo e quando leggiamo le loro poesie, che prendono la direzione dei corpi e della sessualità, M. Grazia le riprende nella descrizione di questi ragazzi.

Opera di trasformazione e non di cambiamento: da ciò che sta ai margini ci viene detto che cos’è stare a scuola, che cos’è costruire cultura, far crescere la passione per la creazione.

In questo libro, tanti stili, come diceva Livia Alga, che ci aiutano a comprendere come M. Grazia metta in evidenza ciò che emerge nel laboratorio: passaggi della formatrice che conduce il laboratorio, ma anche di tutti i formatori dell’équipe, pezzi d’interviste ai ragazzi, che cominciano il laboratorio in otto e poi diventeranno quindici e parole dell’intero team di formatori che comincia a cambiare lo sguardo, e Maria Grazia ci aiuta a vedere questi spostamenti di sguardi anche all’interno del libro.

Il libro parla di un laboratorio, ma il laboratorio che si svolge in una classe del C.F.P. è un pretesto, in realtà, è il libro che diviene un laboratorio.

Pre-testo in tutti sensi, quindi, il laboratorio e in tutti questi cambi di linguaggi che l’autrice riesce a comporre, il testo diviene esso stesso laboratorio nel quale lei mette in relazione le riflessioni che questi giovani ragazze e ragazzi fanno e le loro parole poetiche, con parole di poeti, scrittori, scienziati, ricercatori, artisti, filosofe: Braque, Senzaki, Bateson, Déleuze, Kristeva, Zanzotto, Zamboni, Buttarelli, per citarne alcuni.

E questo è un passaggio che ci sconvolge.

Ed è anche una scelta molto interessante, perché il libro è attraversato da una ricerca-azione che non si compie solo nel passato, cioè nel racconto dell’esperienza, ma che avviene anche leggendo queste pagine.

Scrivere di una ricerca-azione collocata in una scuola, precisamente un C.F.P., in cui si svolge un laboratorio di poesie e delineare anche il percorso di ricerca che guida, a livelli differenti, tutti i personaggi coinvolti, non è cosa semplice.

Non è neppure scontato che questi personaggi, attraverso la scrittura, diventino “vivi” e non siano, come spesso avviene nei saggi, semplicemente elementi utili a dar conto di un percorso educativo o professionale o culturale.

M. Grazia riesce nell’impresa articolando una storia a presenze molteplici, con lo spessore di una ricerca e con la bellezza del registro narrativo e poetico.

Leggere questo libro è stare su un doppio registro, quello della ragione e quello della sensazione, come in quest’esempio di un breve racconto che la formatrice che conduce il laboratorio fa:

Tutto ebbe inizio una mattina del 2006 quando il mio collega Daniele, che condivide con me l’amore per la poesia, mi portò al C.F.P. un piccolo libricino colorato del poeta e scrittore colombiano Jairo Anìbal Nino. Il libricino, teneramente illustrato ad acquerello, s’intitola “Mi fa male la pancia del cuore” ed è una deliziosa raccolta di poesie dai banchi di scuola in cui Jairo immagina di tornare ragazzo e di scrivere le emozioni suscitate dalle prime esperienze d’amore. Cosi, rapita dalla bellezza e dall’innocenza dei contenuti, più tardi, nell’ora d’italiano mi sento di proporre alla classe la lettura di una piccola poesia e mentre leggo Pioviggina. Penso a Paula che è assente, sento quel silenzio prezioso che si forma in classe quando dico qualcosa che sento, quando parlo di qualcosa in cui credo.

Il libro smonta tanti pregiudizi: sui tipi di scuola, sulla disabilità, sull’intelligenza, sui Centri di Formazione Professionale, sulle professoresse e sui dirigenti scolastici, sugli psicologi.

Vedere le deviazioni in ciò che si dà per scontato è avere il coraggio di dire ciò che nessuno o pochi sono pronti a sentire.

Vedere le deviazioni come svolta creativa è dire una verità, quella che fa degli altri un dono prezioso, anche scomodo, perché quando li sappiamo vedere così, il “ruolo” di chi educa è sottoposto a trasformazioni. Ogni trasformazione che conta, si sa, non è un fatto singolo, è istituzionale, è collettivo, è politico.

Diverse sono le prospettive che M. Grazia indica, diversi i modi di leggere il suo libro, del quale si possono evidenziarne molti come:

-percorso di formazione nelle scuole
-rimettere in questione la progettazione educativa e ne offre un esempio
-poetica e poesia
-ricerca – azione
-documentare una ricerca-azione
-psicologico e terapeutico.
Tutto ciò avviene nel libro, ma come avviene?

M. Grazia, dicevo, tratta questo testo come ricerca-azione e assume una posizione nello scrivere che è quella di comprendere anche come tutti gli elementi creati nel laboratorio trasformano l’Istituzione stessa; lei riesce a evidenziare, sia le azioni di chi è coinvolto, sia di chi no, come quelle degli altri formatori.

Se vogliamo quindi dire ‘quali parti’ di questa articolata realtà sono quelle che vengono trasformate, dobbiamo riferirci a più livelli: alla dimensione interna di ogni singolo ragazzo e singola ragazza del laboratorio, l’interno di se stessa, l’interno dell’Istituzione, che è l’interno di un mondo che cambia il proprio modo di fare scuola.

Ma andiamo con ordine

Noi spesso pensiamo che i saperi siano al centro del nostro stare, in realtà, e Maria Grazia lo scrive spesso, occorre spostare completamente i margini, e lei lo fa.

Dai margini, Maria Grazia riesce a trovare parole, punti di vista, domande che ci sembra perfino difficile pensare che esistano, anzi, questa sua posizione non potrebbe esistere se mantenesse al centro i saperi.

C’è una eccentricità creativa incredibile in tutto questo.

Altro filone che ci può illuminare è come la formatrice Grazia nel laboratorio, e M. Grazia nello scrivere questo libro, mettano in gioco la loro passione, il loro partire da sé.

Grazia Capuzzo, che invita all’esercizio poetico i suoi allievi, usa la passione e li ascolta con orecchie speciali, chi scrive di loro, Maria Grazia Chinato, sa decodificare ciò che sta nell’aria, scrive dell’invisibile che sta nel lavoro quotidiano e ce lo regala con questo libro; assume occhi e orecchie perché si apra una lotta politico-poetica capace di dare ai personaggi che racconta lo spazio di soggetti attivi, che ci parlano di un mondo che si può cambiare e di un modo di osservare questo mondo che traccia prospettive altre rispetto a ciò che è dato per scontato.

M. Grazia nel descrivere il laboratorio prende anche pezzi di ciò che la formatrice scrive, porta anche questa sue parole, questa testimonianza, e il modo in cui lo fa si dà come forma di gratitudine e restituzione perché in questo testo tutti i personaggi sono vivi, non sono riportati, essi vivono all’interno di questa testo.

Maria Grazia non si impadronisce delle storie dei soggetti, al contrario, offre ad esse un palcoscenico perché si narrino con grazia e bellezza.

La scelta dei linguaggi molteplici l’abbiamo già vista con la relazione di Livia ma c’è poi anche il metodo di lavoro di Grazia formatrice, che M. Grazia interpreta e descrive in alcuni punti, precisamente tredici: ve ne leggo solo alcuni che possono aiutare tutti noi, soprattutto chi lavora come operatore nell’area professionale:

Conoscenza di ogni ragazzo; fiducia guadagnata di ciascuno dei soggetti coinvolti; posizione generativa; Capacità di abitare l’ambiguità e l’incertezza della relazione con ogni ragazzo e col gruppo nell’insieme; Assenza di giudizio e valutazione come azione attiva e condivisa, sia all’interno del laboratorio, sia in tutto il contesto formativo”; e poi, ancora, “Atteggiamento di protezione; incoraggiamento; essere nel qui e ora del processo e esercizio di ascolto dei propri pensieri ed emozioni. Sono tutti ingredienti fondamentali: si nutrono direttamente di epistemologia, (pag. 102-103).

Quante volte noi pensiamo che le emozioni non ci facciano pensare? Siamo convinti che le emozioni non vadano bene perché ci portano fuori, al contrario qui le emozioni diventano, come scrive M. Grazia, passaggi importanti per capire che cosa avviene in noi e intorno a noi.

È un esempio molto potente questo.

E, scrive:  “Infine, simile al rapporto che esiste tra la partitura musicale e la sua esecuzione, nella determinazione del metodo diviene molto importante la sottesa epistemologia della conduttrice, che si struttura come copione, cornice dentro la quale si agevolano o impediscono una serie di azioni che, così , acquistano senso” (pag. 103).

Esserci, esserci nel qui e ora, mettersi in gioco non chiedere solo all’altra o all’altro di esporsi; Grazia che conduce si espone potentemente, come M. Grazia fa scrivendo questo libro perché anche lei si espone: ascolta, sa vedere, raccoglie, intervista, restituisce, scrive, ne fa un libro, cioè disegna con le parole per custodire il senso dell’esperienza, per mettere in luce e far circolare la bellezza emersa da condizioni di marginalità.

In questo ci sono delle posizioni di metodo direi maestre, maestre per tutti noi.

Altra posizione che troviamo in tutto il testo è la capacità di stare nell’oscillazione continua di senso di chi pratica la cura e di chi ha cuore il far crescere l’altro, un po’ come stare sospesi in questa competenza a non dare tutto per già costituito. La progettazione sociale, quella educativa, quella professionale è messa da parte, ma questo non vuol dire che chi è in campo sia incompetente, al contrario, una grande compositore di musica non ha bisogno del pentagramma per sapere come si devono disporre le note, le sa, le vive, le sente e le suona con gli altri.

Quindi questo laboratorio gioca nel non previsto, è fuori dai programmi, è per tutti una zona franca, anche per chi non sta nel laboratorio, si percepisce.

Una zona franca dal mondo, un intruso in un corpo scolastico che va a modificare i pensieri, le persone, le loro posizioni, è un laboratorio.

Ho cercato di focalizzare alcuni punti che già sono stati detti, ma che sono importanti per definire il metodo per poter dire, anche noi, avevo un pregiudizio, per fare questo passaggio di trasformazione.

Vi ho già detto che M. Grazia è colei che sa disegnare, descrivere ciò che avviene nell’aria e dà senso a ciò che avviene nella poesia, nelle relazioni che passano all’interno del laboratorio; allora, per esempio, vede e descrive il caso -quello che ha fatto iniziare il laboratorio- come un personaggio, proprio qualcuno che agisce, qualcuno che fa, fa fare e compie dei passaggi forti e dà delle occasioni, come il libretto di un poeta che arriva, è il caso che arriva e il procedere è un procedere fuori dalla strada già tracciata, un procedere per deviazioni è un “fiutare” la vita”, scrive M. Grazia Chinato, “è trasmettere gioia in quello che si fa”, in ogni momento e la scrittura accoglie la bellezza della bellezza che le ragazze e i ragazzi avvertono, scrive:

Questa non è più l’ora solita d’italiano, i ragazzi la percepiscono nettamente dall’aria intorno; a volte impalpabile e leggera, altre vibrante di rugiada curiosa che passa di bocca in bocca con parole che sembrano intessere una fitta trina di stupore e meraviglia. La bellezza avvertita dai ragazzi alla lettura della poesia, la bellezza di parole che sapevano dire le loro stesse sensazioni, emozioni, la bellezza ha portato al desiderio d’incontrare la poesia, incontrare la possibilità di dire.  La meraviglia sta lì, in quelle parole che hanno detto tanto in modo così semplice e che compongono una poesia che fa risuonare i cuori di tutti, (pag. 34).

Un altro elemento importante che può aiutare tutti, me compresa, che lavoriamo nell’istituzione e che ci prendiamo cura di altre ed altri, è la capacità di trasgredire le regole per prestare fedeltà ad un processo di formazione che fa crescere tutti, non solamente gli allievi. In questo trasgredire si può tirar fuori da se stessi, andare alla ricerca ed esporre le emozioni, i ricordi, le suggestioni che compongono i testi che avete sentito.

Nessuna valutazione, diagnosi o interpretazione di quello che l’altro fa o dice, ma solo esposizione, solo composizione insieme.

E’ un approccio non deterministico all’esperienza, quindi si sta alla pazienza, nell’attesa, nel non prevedibile che sollecita il non previsto.

Il testo vive di un passaggio di paradigma che i ragazzi compiono -e che noi siamo invitati a compiere- è quello dalla poesia degli altri alla poesia di tutti, (si veda pag. 38), così che dalla fatica e dalla vergogna, dalla diagnosi, dal margine, passino alla possibilità di creare; non è cosa da poco, le parole delle poesie, raccolte, distribuite, pensate, rimescolate, sono come dei semi, nascono, sono nate, fanno nascere.

Un altro aspetto che sottolineo -che puntualmente viene evocato nel testo- è la capacità di stare nell’evento, in ciò che accade, nell’imprevisto, che può anche farti soffrire, metterti al muro; questo evento, invece, nella poesia può diventare forza creativa anche perché pone domande a tutta la scuola, non solo ai protagonisti del laboratorio, chiede, per esempio se questa è ancora una scuola professionale, se il laboratorio sia un angolo di sfogo o piuttosto un luogo formativo.

Ed è in questa capacità di porsi domande su ciò che stiamo facendo, domande che ci fanno stare un po’ fuori dalla strada tracciata, un po’ a fianco, è nell’affermare che queste sono poesie, sono queste nuove prospettive che fanno respirare una grande gioia, quella della possibilità, laddove –invece- è già tutto tracciato, e spesso diventa impossibile pensare.

In un certo senso, quando siamo davanti a qualcosa che già codificato, come avviene spesso nella storia di chi sta nei margini -questi ragazzi- sono già nelle schede sono già classificati, così che si danno già delle sigle, delle abbreviazioni.

Lo spostamento è potente.

Per tornare al pregiudizio delle istituzioni, sappiamo che dentro una cultura istituzionale noi non ci poniamo delle domande sul linguaggio che utilizziamo per nominare quelli che stanno ai margini, li chiamiamo i ragazzi, non c’importa se sono donne, giovani maschi, quale la loro storia, sono sempre ragazzi, anche quando hanno più di 30/40 anni; il linguaggio porta il segno di un indistinguibile qualunque, effetto appunto del pregiudizio che appiattisce tutti.

Qui, invece, il passaggio è tutt’altro, M. Grazia domanda: “Come parliamo di questi ragazzi? Come li pensiamo, li tocchiamo, come li immaginiamo?”(pag. 63)

Questo è un grande passaggio che si compie perché queste poesie aiutano a ragionare su come si utilizza il linguaggio per dire dell’altro, per definirlo.

È come se la parola poetica potesse trasformare e trasforma -nel testo lo si vede- trasforma anche il linguaggio dei professionisti. Questo è un altra grande forza che arriva e quindi, quando si comincia a porsi queste domande, si comincia a trasformarsi e la metamorfosi che si vede e accompagna le pagine di questo libro, cambia lo spartito dei formatori e di chi conosce questi ‘poeti’ e li vede tutti i giorni e comincia a cambiare lo sguardo della quotidianità. Non è cosa da poco.

La metamorfosi di chi osserva -chiamiamo così i professionisti- di chi pone lo sguardo nella quotidianità, cambia, è questo sguardo che viene sconvolto, si è rivolto, si rivolge in un’altra prospettiva.

Non ci sono diversi punti di vista, sono diventate diverse le persone coinvolte.

La metamorfosi di chi è osservatore, in questo caso riguarda me, i miei occhi, i nostri sguardi di insegnanti, operatori, educatori che il laboratorio e chi narra di esso ha attivato, è ripresa da queste parole di M. Grazia (pag. 179):

Quando tutti noi che lavoriamo al Centro di Formazione Professionale abbiamo letto ciò che avevano scritto ci siamo trovare un po’ disarmati, colpiti da una grande emozione arrivata improvvisa, era come se le coordinate di spazio e tempo -misure amiche, caritatevoli, lenitive di sentimenti e imbarazzi, fossero -a volte- venute meno.

Così, queste misure che consolano il nostro bisogno di unità e rispondono a bisogni di distanze professionali tra noi e i ragazzi, offrendoci ripari, trame sicure in cui stare, qui si sono squarciate: nel leggere le poesie, infatti, lo spazio e il tempo si concretizzano nel qui e ora, l’immediatezza immanente nell’essere dentro, del lasciarsi trascinare dentro, hanno aperto domande e, a quel punto, abbiamo dovuto scavare nel nostro cuore, nell’anima, per stare in esse.  Le nostre conoscenze non contemplavano queste possibilità, ciò che sapevamo delle disabilità cognitive serie non contemplava questa immersione, le nostre esperienze di relazione con questi ragazzi ci avevano collocati in un mondo di distanze imparate e sicure.

Le domande sono sorte dalla sorpresa, dalla meraviglia di leggere alcune loro poesie, messe in moto dallo stato di ‘scoperta’. Uno stato che riporta un po’ alla bellezza della meraviglia infantile che segue alla scoperta. Come se queste poesie esistessero lì, solo per noi, (pag.179).

Vorrei leggere un paio di poesie che parlano di sguardi che portano ad altro:

(Mariadaniela Ganci)

Il tuo sorriso

abbaglia la luna

Questo sorriso mi ha portato veramente in alto.

Ancora di Luca Faccioli

Ricordo di aver letto

che la carta è paziente.

E’ una cosa che mi è rimasta dentro.

Significa che aspetta

e non ti interrompe

appena improvvisi

una poesia.

Infine, riporto una frase della conduttrice del laboratorio, che M. Grazia trascrive:

Noi siamo un corpo creato che possiamo cambiare solo in parte (…) invece, quando scriviamo possiamo cambiare tutto. Vi ricordo che il linguaggio è un regno e chi scrive è il re. Scrivere è creare.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *